giovedì 30 ottobre 2008

gomorra/il divoivo/into the wild a rho

il cineforum rodense va avanti con un successo che ancora riesce a sorprenderci, il che getta un po' di luce su queste opache giornate di caduta libera (morale) della nostra classe dirigente.
Oltre che del mercato azionario.
Vale la pena di menzionare due fra i film che abbiamo proposto finora: Gomorra e Il Divo - farò una recensione, mi basta osservare che:

1) ho riapprezzato Il Divo ancor più della prima volta (Gomorra l'ha invece presentato Francesco, che magari vi racconta un'altra volta)

2) mi sono commossa da sola quando ho dato inizio alla discussione post film; mi sono venute in mente le parole di Sorrentino sul ruolo del cinema e ho osservato che forse è troppo ottimista quando dice che un film può cambiare le coscienze, ma che di certo Il Divo e Gomorra rimarranno nella storia del cinema mondiale - e fra quelli importanti

3) questi due film hanno fatto un piccolo miracolo, da Cannes alle sale, portando un cinema di alta qualità a un pubblico di massa che ha capito e apprezzato - e non soltanto per via del "contenuto". E non è poco.

ahimè non sono però sempre esaltanti le novità nel mio lavoro di presentazione e commento nell'auditorium rodense. voglio dire che capita anche di presentare film che non mi sono piaciuti ma va bene, perchè si impara moltissimo. ieri e oggi Into the wild, con mio tentativo di raccontare quel che penso senza distruggere il film e senza condizionare troppo il giudizio del pubblico - se è condizionabile.

quindi prima della proiezione mi limito a raccontare brevemente la genesi del film, aggiungendo che no, non lo trovo un capolavoro, ma come dice Crespi dell'Unità pur non essendolo può far innamorare.

dopo la proiezione ci provo, a non andar giù dura, ma il mio giudizio trapela evidente nella ricostruzione che faccio del percorso creativo che ha stratificato tre costruzioni diverse dello stesso mito americano. Qui di seguito, la riflessione che ne è uscita stamattina:

1) prima Christopher McCandless, nutrito di letture come Tolstoj, London e Thoreau, straccia la propria identità per costruirsene una nuova, con tante buone intenzioni e coraggio, ma anche con tanta polpa di stereotipi. infatti, ben oltre i viaggi solitari degli scrittori beat, alexander supertramp veleggia sicuro verso un autoconsacrazione-fusione con l'immensità e libertà della natura, rispetto alla quale forse la morte non era il finale previsto. Forse sotto sotto prevedeva di tornare a casa e diventare un famoso scrittore, a partire dalla propria autobiografia romanzata: non per niente scriveva un diario in terza persona!
perchè la natura che Alexander ha in mente non è neutra, è quella appresa attraverso strati e strati di accumulazioni culturali, è la wilderness americana, pericolosa, affascinante, ma anche e soprattutto legata a un senso mistico di predestinazione alle grandi cose che tocca tutti gli americani, proprio perchè gli americani sono identificati da questo:
gli americani non sono il popolo eletto perchè vi deve nascere il messia. sono il popolo eletto perchè hanno costruito la propria identità attraverso il viaggio e la conquista della natura selvaggia, hanno sfidato l'immensità degli spazi, hanno coabitato con l'ambiente più ostile, vi hanno stabilito la propria piccola cellula abitativa, e nella solitudine hanno trovato il proprio orgoglio e la base del proprio diritto di proprietà (e di espansione ad libitum).

2) per secondo arriva Jon Krakauer, l'alpinista-giornalista, che unisce il mito al borsellino, l'utile al dilettevole, e come un vero attore addestrato sul metodo Stanislavski s'immedesima, ripercorre le tappe di Alexander, ricostruisce il suo cammino, incontra le stesse persone, succhia le stesse visioni, patisce lo stesso gelo e infine scrive un best-seller!

3) last but not least, ecco Sean Penn, che stanislavski ce l'ha nel curriculum, eccolo leggere il libro, rifare la stessa cosa, costringere anche la troupe a scalare collinette con tutta l'attrezzatura e ricreare visivamente il mito, romantico-americano mito dell'uomo che, diversamente dal romantico europeo, nel confrontarsi con l'immenso, non scompare né resta minuscolo testimone, ma a sua volta giganteggia, conquista le altezze dei monti e soprattutto le profondità del proprio spirito e le mitizza, le mostra come modello da imitare, santo e martire di un'idea di libertà individuale che seppur sconfitta sul piano materiale - perchè di sconfitta si dovrebbe trattare - invita a seguirlo, ciascuno nel suo piccolo, ciascuno a costruire a modo suo il proprio mito di libertà per poi consacrarlo alla famiglia. Come ben s'intuisce dalla chiusa.

non per niente, come giustamente ha notato paola, un film che dovrebbe trattare di un rifiuto, di un sottrarsi al benessere e alle "cose". è fatto invece con uno stile ricco, patinato, alla National Geographic, uno stile che assomiglia di più alla provenienza di Cristopher, che alle peregrinazioni di uno straccione!

sui pestiferi fratelli coen

i due perfidi fratelli quasi siamesi continuano ad alternare film più intensi e film più leggeri: con Burn after reading - A prova di spia si sapeva già che toccava alla leggerezza. Mai peraltro esente da ironia e sarcasmo: il focus è l'assurda piccineria scombinata e ridicola delle motivazioni e delle scelte che guidano i personaggi in gioco.

E poichè i coen, a differenza di altri registi americani pur famosi e di sinistra (la frecciata è per sean penn) sono di quelli capaci di adeguare stile e struttura a ciò che vien narrato, o meglio ne fan tutt'uno, ne viene fuori un film che, per l'appunto, gioco scombinato e ridicolo è.

Ce lo conferma genialmente la chiusura.

Non è il capo della CIA a parlare con il suo vice, ma sono gli stessi coen, che pongono la fatale domanda, ed è una domanda che molti dovrebbero porsi un po' più spesso, con la stessa onestà nella risposta.

Che cosa abbiamo capito da tutto questo?
Abbiamo capito che non lo dobbiamo fare più.
Già, solo che non sappiamo che cosa abbiamo fatto!

venerdì 24 ottobre 2008

asti - giornate fice

copio e incollo queste brevi recensioni scritte da paola dopo le giornate FICE 2008, e da me pienamente condivise:
primo film delle giornate è the burning plain di guillermo arriaga, sceneggiatore di inarritu. i primi venti minuti, ancora ancora, passano nel tentativo di riconoscere kim basinger (rifatta come non mai) e di capire la struttura a flash-back multipli del film. riconosciuta la basinger, capita la struttura rimane la noia prevedibile e mortale con cui ci si trascina verso il finale risolto da infiniti retorici sguardi alla finestra e un incredibile e sempliciotto sorriso della solita bella e tormentata charlize theron (a quando un ruolo diverso?).
il secondo, baby love di vincent garenq, commediola gay-friendly sul desiderio di paternità di un quarantenne benestante, divertente, ma si dimentica in fretta.
il terzo, rachel getting married con cui jonathan demme torna decisamente a piacermi, bravi gli attori, interessanti i movimenti di macchina, bellissime debra winger e rosemarie dewitt, ben usata la musica e i musicisti.
il quarto e ultimo film del primo giorno, slumdog millionaire di danny boyle, girato un po' come un documentario, un po' come un film onirico, a tratti molto bello, a tratti molto noioso e stiloso, non so: sicuramente non incasserà, a meno di un lancio a cura di gerry scotti, mah

alle recensioni di paola aggiungo: forse se arriaga ora fa il regista, c'è qualche speranza che inarritu diriga film veramente propri - chè la stoffa non gli mancherebbe, ma finora qualcosa non aveva funzionato, e ora credo o spero di avere capito che cosa: se ho ragione, forse da solo farà film meno estetizzanti e più significativi. eppure, ahimè, il film di arriaga può piacere, storia intensa, scenari paesistici stupendi, scavo psicologico... ma non fatevi abbindolare! i pezzi sono messi insieme con furbizia.

quanto a demme, il suo è uno dei due film migliori della rassegna, guarda caso di due grandi registi affermati e anzi stagionati, ma che sanno rinnovarsi più che bene. mescola un po' di stile dogma, camera a mano traballante, tagli stretti, quel certo documentarismo asciutto e assillante che trovi anche nei dardenne e che ti fa sentire davvero parte della scena, magari anche un po' a disagio, così voyeur infilato fra le pieghe di una storia che all'inizio sembra troppo personale, troppo altrui. e invece, a poco a poco, diventa anche tua, diventa di tutti, sei sulla giostra e giri con gli altri, seza perdere un colpo.

il giorno dopo segue il secondo miglior film, happy-go-lucky – la felicità porta fortuna di mike leigh improvvisamente leggero, anzi no, chè attraverso gli sguardi della protagonista, una bizzarra maestra elementare allegra, ironica e socievole fino all'antipatia, guardi un mondo tutt'altro che pacificato. guardi il mondo, lo vedi per quello che è, faticoso, pieno di piccole e grandi violenze e chiusure difficili da giudicare, disorientante. eppure apprezzi, se lei non ti sta troppo sul culo come è capitato a stefano, quella prospettiva amorosa, capace di tenere insieme i pezzi dell'esistenza.

e ancora la banda bader-meinhoff di uli edel, come dice paola molto tedesco, più coerente de La meglio gioventù, altrettanto interessante come documento di informazione sulla storia recente, ma con analoghi difetti. l'interpretazione, ah, l'interpretazione della storia, che guaio, quando si tenta di mescolare film e documentario, strutture narrative tradizionali e nudi fatti. impresa non facile, molto rischiosa. e qui si nota, come ne venga fuori un ibrido un po' pasticciato di nudi fatti e psicologia, come a volte il film si barcameni sul filo del politically correct e finisca per essere scontato alla maniera di una fiction qualunque, come ci sia un po' troppo di tutto, come emerga l'invenzione di uno sviluppo psicologico dei personaggi non ben motivato, come il mito faccia parte del racconto invece di esserne tenuto ben distinto. lo distingue bene, invece, dentro la storia, uno dei personaggi migliori, quello interpretato da Bruno Ganz.

ancora brevi commenti da paola
lezione 21 di alessandro baricco: film visivo, poetico, didattico, da vedere; un po' greenaway, un po' kubrick, molto baricco (credo); il più bello delle giornate.
il secondo, the visitor di thomas mccarthy: etico, statico, americano da sundance, dal fascino orientale, donne bellissime, lieto fine vietato, di questi tempi si sa è così che va.
il terzo, choke (soffocare) di clark gregg: ancora più sundance, ancora più america intellettuale, ancora più noia, nonostante anjelica huston.
il quarto, zoè di giuseppe varlotta: un solo commento, perchè?

aggiungerei: baricco è sì poetico, ma un po' troppo e troppo a lungo emulo di greenaway con quei raccontatori a mezzo busto, che ricordano anche tante altre cose, da ionesco a matthew barney: insomma, un filino "moda".
the visitor ha una staticità che almeno in parte mi sembra ingiustificata, usata come strumento solo perchè genericamente "adatta" a un tipico film di correttezza interclassista e interculturale. così dopo un po' smette di trasmettere sensazioni e comincia veramente ad annoiare.
choke è uno dei peggiori, dei più pretestuosi; certo non doveva essere semplice fare un film da quel libro di palaniuk... ma allora meglio non farlo affatto. Fincher c'era riuscito meglio, su un testo suppongo analogo: ma lo aveva fatto comunque con una certa fatica e un risultato non proprio esaltante. gregg è un pivello che sembra semplicemente affascinato dal cotè cattivello e trasgressivello di questo personaggiucolo la cui assurdità smuove ben poche corde.
su zoè occorre assolutamente sorvolare; tanto non uscirà, e per una volta non è un danno.

CINEMAdiVINO

Sabato 11 ottobre abbiamo inaugurato un nuovo appuntamento presso il Cineteatro di via Volta a Cologno Monzese: CINEMAdiVINO, proiezione film e, a seguire, degustazione di vini.

Come primo “assaggio” l’esperienza è stata positiva. L’ottimo vino dell’azienda agricola Tre Monti ha sciolto il ghiaccio e alcuni spettatori si sono fermati a chiacchierare con noi e tra di loro. Sicuramente la prossima volta saranno ancora di più quelli che vinceranno la timidezza e l’imbarazzo per la novità si attarderanno insieme a noi. Lo scopo dell’iniziativa (che vorremmo proporre ogni 15 giorni) infatti è di trattenere gli spettatori dopo la visione del film affinché scambino due chiacchiere sul film appena visto, ma non solo. Insomma, ci piacerebbe assai creare un momento di socializzazione legato alla proiezione cinematografica. Il silenzio in sala e le chiacchiere nell’atrio con un buon bicchiere di vino in mano. Incontrarsi, parlarsi, conoscersi, confrontarsi per sconfiggere la triste visione casalinga di film, siano essi trasmessi in tv o scaricati sul monitor di un pc. Cosa ne pensate? Vi sembra una buona idea? Partecipereste? Se avete suggerimenti o proposte fatecelo sapere.

SURVIVAL e BIRDWATCHERS - LA TERRA DEGLI UOMINI ROSSI


Martedì 29 settembre in occasione della proiezione del film BIRDWATCHERS – LA TERRA DEGLI UOMINI ROSSI di Marco Bechis presso il Cineteatro di via Volta a Cologno Monzese abbiamo ospitato Francesca Casella, responsabile della sezione italiana di SURVIVAL.
E’ stato un incontro molto bello e importante, seguito da quasi 100 spettatori attenti e partecipi.
Per chi non la conoscesse, Survival è un’organizzazione internazionale completamente indipendente e unica nel suo genere. Si occupa della salvaguardia delle popolazioni indigene di ogni parte del globo. Molte sono le cause sposate e vinte. Molte quelle ancora da combattere. E altrettante quelle che sono in corso e che necessitano l’aiuto di tutti noi.
Quella che vi invitiamo a sostenere è la petizione per la ratifica della convenzione 169 dell’ILO.
“La 169 è una convenzione dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO), un’agenzia delle Nazioni Unite, e costituisce la più importante legge internazionale sui popoli tribali. I governi che la ratificano si assumono formalmente l’obbligo di rispettarla. La Convenzione riconosce i diritti di proprietà della terra dei popoli tribali e stabilisce che essi debbano essere consultati ogniqualvolta vengono varati leggi o progetti di sviluppo che possono avere un impatto sulle loro vite. La 169 riconosce, inoltre, le pratiche culturali e sociali dei popoli tribali, garantisce il rispetto delle loro tradizioni e chiede che le loro risorse naturali vengano protette. Pertanto, costituisce uno strumento di vitale importanza per la difesa dei popoli indigeni di tutto il mondo.” (dal sito www.survival.it)
Ad oggi sono solo 19 i paesi che hanno ratificato la convenzione e tra questi solo 3 sono europei. Ovviamente l’Italia non fa parte di questa lista. Facciamo quindi sentire la nostra voce e firmiamo la petizione, forse qualcosa cambierà.
Survival vive e opera grazie solo alle donazioni dei soci e dei sostenitori e per mantenere la propria indipendenza rifiuta qualsiasi aiuto di tipo economico da parte di governi e industrie. Diviene così indispensabile dare il proprio contributo attraverso versamenti di denaro, non importa di che entità.