martedì 18 ottobre 2011

dagli Incontri del cinema d'essai - Mantova 11-13 ottobre

con Paola siamo andate a vedere che cosa gli incontri della Fice proponessero quest'anno in anteprima: il programma era molto ricco, impossibile seguirlo tutto. Abbiamo visto qualcosa di sicuramente buono, che credo finirà nel calendario del cineforum, ma anche una quantità di brutture al limite dell'inguardabile.
Cominciamo da un film così così:

La prima mattinata si apre con Moneyball, o L'arte di vincere, diretto da Bennet Miller e basato sull'omonimo best-seller di Michael Lewis. Mi chiedo come si possa pensare che un film simile funzioni in Italia. Certo, Clint Eastwood è riuscito, nel 2009, ad andar bene al botteghino con un film sul rugby. Ma era Clint Eastwood, aveva Matt Damon e Morgan Freeman, ed era anche un film sui momenti gioiosi e gloriosi della fine dell'apartheid. Bruttino, comunque. Ma Bennet Miller? Chi si ricorda che Miller ha già diretto un peraltro discreto film, Capote? Quasi nessuno, credo. Chi andrà a vedere un suo film sul baseball? Basterà il fatto che il protagonista sia interpretato da Brad Pitt? Temo di no. E non me ne dispiaccio. Il film è il solito polpettone denso di emozioni giocate sui temi consueti, il denaro, la sconfitta, la vittoria, l'autostima, e ancora la sconfitta, la perseveranza, la vittoria morale. Ma la prevedibilità della trama spicca in modo quasi grottesco quando si assiste, una dopo l'altra, a una serie di partite di un gioco così estraneo alla nostra cultura.

Poco dopo, ci spostiamo di sala per vedere Killer Joe, di William Friedkin, noto soprattutto per il suo storico horror, L'esorcista. A parte che la videoproiezione è bruttina a causa di luci-colori tarati male, la mano si nota, la regia è ottima, il film tiene ma... sarebbe stato meglio non voler scopiazzare Tarantino e Rodriguez, non voler fare uno splatter divertente e caustico senza saperlo fare fino in fondo. Perché alla fine manca qualcosa, che invece nei loro film c'è sempre: forse il senso, dato di solito dal sapore di una fin troppo giusta - anche perché estremamente fasulla - vendetta, forse la risata adrenalinicamente sfrenata che spesso ci sanno regalare, loro, i due veri e unici resuscitatori del grindhouse, exploitation o b-movie che dir si voglia.

Terza visione: dieci minuti di Quando la notte, di Cristina Comencini, dal suo omonimo romanzo ... sospendo il giudizio, perché dieci minuti son davvero troppo pochi ma ho avuto un'impressione così così, attori mal diretti, personaggi poco credibili, dialoghi che san di scritto più che di parlato e montaggio aritmico.

Finalmente arriva qualcosa di buono con Una separazione, diretto da Asghar Farhadi, già noto in Italia per About Elly (2009). Si riconfermano alcune qualità che sembrano tipiche di un certo cinema orientale o meglio mediorentale: la capacità di consegnare alle immagini uno sguardo esistenziale estremamente disincantato, ironico ma quasi mai cinico. Ed è questo che distingue, credo, questo Woody Allen iraniano dal vero Woody Allen o dal suo recente emulo Polanski (v. Carnage), nella comune rappresentazione delle parole come armi, come olio che unge le ruote dei conflitti. L'arguto pessimismo di Farhadi non scivola mai nella caricatura e non dimentica che chi vuole può sempre tentare di resistere. Ci sono film in cui anche parlando poco si dice già troppo. Qui si parla molto ma si dice il giusto, conducendo a poco a poco lo spettatore dentro l'evolversi di un teso intreccio di rapporti umani, spesso prevedibili, ripetitivi, guidati da paure e debolezze, ma anche inevitabilmente aperti al futuro e autentici nell'assenza di ogni moralismo.

Segue un altro film in cui il tema centrale è la 'separazione': è Il sentiero, diretto da Jasmila Zbanic. Inizia come una commedia, la vita semi-spensierata di una giovane coppia bosniaca dei nostri giorni, e procede con una tensione crescente che riporta i protagonisti da un lato verso il loro recente passato traumatico, di guerra e di morte, dall'altro verso due modi sempre più opposti di reagire e di intendere il futuro, uno del tutto integrato nella cultura europea d'occidente, l'altro in cerca di rinnovamento e sicurezza attraverso l'adesione a una comunità islamica integralista. In sottofondo, il problema dell'inseminazione artificiale. Sarebbe stata una bella storia, e a tratti riesce a far intravedere la Bosnia di oggi, la situazione complessa e difficile che attraversa. Purtroppo la regia è retorica, un eccesso di sorrisi e salamelecchi cede rapidamente a grugni duri e scontri frontali, i personaggi di contorno sono delle macchiette a volte imbarazzanti e si finisce per sperare in qualche momento di vera tragedia che blocchi la noia incipiente.

Almanya è uno dei film migliori dell'intera iniziativa. Diretto da Yasemin Sandereli, una regista tedesco-turca, ricorda per un pezzetto Baaria, per un altro Little miss Sunshine: le risate sono assicurate, ma non impediscono al film di avere una sua serietà, occhi divertiti ma anche ben aperti sulla storia. La vicenda centrale riguarda l'immigrazione turca in Germania, e mette in scena le contraddizioni e le reciproche incomprensioni dei due popoli, secondo luoghi tipici di un genere ormai ben rappresentato da film vecchi e nuovi, da East is East a Jalla-Jalla e molti altri. Anche Almanya tratta in particolare il tema dell'integrazione scegliendo un tono leggero, a volte spassoso, con quel misto di ironia e autoironia che solo le 'seconde generazioni', con il loro duplice bagaglio culturale, possono sfoderare così bene.

Shame: o del sesso come non l'avete mai visto, ma come forse non vorreste mai vederlo. E' questo il problema fondamentale del film. Ben diretto e ben interpretato, buono sotto tutti i punti di vista tecnici (salvo qualche riserva sulla sceneggiatura) e dotato di un suo stile visivo appropriato alle emozioni che vuole trasmettere, mette in scena la vicenda di un ninfomane e di sua sorella, una maniaca suicida, ma non riesce a coinvolgere lo spettatore. La reazione scandalizzata delle 'sciure' all'inizio mi ha indispettito, perché guardavano solo ai contenuti e non a come erano rappresentati. Ma alla fine non ho potuto dar loro torto fino in fondo. C'è qualcosa di buono e di nuovo nel modo di raccontare il sesso come ossessione solitaria, vissuta conflittualmente pur negli agi e nell'apparente libertà di costumi della grande mela, ma anche qualcosa di gratuito e di noioso, qualche scena di troppo, qualche prevedibilità in eccesso, che impedisce all'andazzo plumbeo e soffocante della storia di trasformarsi in un bel film. Diretto da Steve McQueen, con Michael Fassbender e Carey Mulligan, belli, bravi e imbruttiti.

Il resto alla prossima puntata!

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