mercoledì 3 settembre 2014

riassumendo Venezia71: consigli

consiglierei ai miei amici
The look of silence (in concorso: uno dei miei favoriti)
A pigeon sat on a branch reflecting on existence* (in concorso: l'altro dei miei favoriti)
Belluscone una storia siciliana
Realité
Im Keller*
*(dipende da quali amici, potrebbe non piacere)

abbastanza
Il giovane favoloso
She's funny that way
the humbling
Loin des hommes

insapori insipidi

Manglehorn
Kanojo dame ga shitteiru (1960)
Giulio Andreotti - il cinema visto da vicino
La Zuppa del demonio
Italy in a day

si salvi chi può (consiglierei ai miei nemici)
hungry hearts

Jon, oltre a dare questi consigli che riporto di seguito (e con cui sono d'accordo)

sostiene che in alcuni casi non ci sia bisogno di vedere i film in prima persona per poter dare consigli, soprattutto quando si hanno amici di cui ci si fida. Quindi azzardo (anche seguendo i suoi pareri e quelli di altri amici fidati):

consiglierei ai miei amici
anime nere
olive kitteridge

abbastanza
birdman

insapori insipidi
Altman
Words with god
3 coers

si salvi chi può (consiglierei ai miei nemici)
the cut
la vita oscena


Sala Volpi


martedì 2 settembre 2014

venezia / giorno sei e sette: un piccione seduto su un ramo che riflette sull'esistenza

Vedere film con tante persone di altre nazionalità aiuta molto a capire il cinema italiano: vedere se funziona, se racconta storie universali e se lo fa in un modo universale. Se, per una volta, non parla al "proprio cortile". Questa parentesi è necessaria per contestualizzare la mia visione di due dei film italiani più attesi qui al festival.

Il giovane Favoloso (in concorso) di Martone: il biopic su Leopardi con Elio Germano e un affiatato e notevole cast di attori teatrali piace molto a quasi tutti gli italiani in sala, piaciucchia a Peggy (francese di Annecy, vicino al confine con l'Italia, conosce abbastanza bene Leopardi) e risulta un pappone insopportabile a quasi tutti gli altri (tendenzialmente più si va a nord più risulta indigesto: gli inglesi, i tedeschi, gli estoni, i polacchi -con la simpatica aggiunta di Cathleen, maltese che vive a Londra- escono storditi da quello che per loro è un film televisivo per le scuole. Per non parlare degli olandesi). Ma, ahimè, in Italia siamo, e quindi è doveroso trovare i meriti (che ci sono) del film. La cosa che più mi colpisce (positivamente intendo) è la scelta di raccontare il più pessimista dei poeti attraverso scene e momenti che in qualche modo evocano una forza vitale e "sensuale" di grande potenza: un audio ben curato (non è una cosa banale in Italia…), un'ottima fotografia, una notevole ricerca di luoghi e scenografie che sono scelti con cura e trasudano bellezza e luminosità (e anche quando si fanno cupi, come la parte finale del periodo a Napoli, rimangono estremamente affascinanti). E' cliché dire che l'argomento sia difficile e delicato da trasporre (la poesia / il poeta), come è cliché dire che Elio Germano sia superlativo (sembra un copione già scritto prima ancora di vedere il film): e infatti tutti i critici sembrano dire queste due cose. Sulla prima sono d'accordo, sulla seconda assolutamente no, ma sono certo al 100% di essere l'unico a pensarlo: mentre vedevo il film ho sempre pensato "toh, va: Elio Germano che fa Leopardi" e mai "toh: Leopardi aveva dei bei muscoli tutto sommato" (e mi è sembrato anche molto sopra le righe, ma è pressoché vietato parlare male di Elio Germano, almeno quanto lo sarebbe parlare male della Rohrwacher o di Battiston: tantopiù in questi giorni visto che si è presentato sulla barca con il pugno alzato poco prima di calcare il red carpet). E' un film prevedibile, che non osa troppo e non ha momenti indimenticabili ma è ben fatto e orchestrato, con un'ottima (sebbene molto prevedibile -secondo i miei amici stranieri) colonna sonora: sarà certamente ben recensito in Italia e segnerà un appuntamento di due ore e venti di noia per  tantissimi studenti cui verrà propinato un film su Leopardi (cito l'Hollywood Reporter:
"In Italy, there is a built-in student audience for this respectful handling of a national icon, and Germani’s popularity and persuasively engaging performance should help sell tickets. But with a running time well over two hours, the film will have to battle for audiences offshore after its festival run"). C'è almeno una scena in cui Martone, come si dice in termini molto tecnici "l'ha fatta fuori dal vaso": a un certo punto il Giovane Favoloso (premio per il peggior titolo finora) sogna una gigantesca scultura di terra (la Natura) che gli porge la mano. QUI il trailer.

Il film italiano più atteso da coloro che si autodefiniscono con grande gioia snob-cinefili (di sinistra, ovviamente) è certamente il film di Maresco Belluscone una storia siciliana (sezione orizzonti): molti di questi ancora prima di vederlo lo decantano come il capolavoro degli ultimi dieci anni. Credo facciano male a fare così, non tanto perché non sia un ottimo film (lo è invece) ma perché è un film piccolo piccolo e che proprio in questo ha la sua forza graffiante e grottesca, la sua vena intima e randagia, da cinicoTV: in linea con il (bel) film precedente (e più in generale con tutto il suo lavoro)  Maresco (ho letto 19 volte negli ultimi due giorni la parola "Genio" associata a lui, per la cronaca) realizza un documentario difficile da definire, realistico ma caricaturale, politico (ovvio), divertito ma dolente, in cui la realtà è più grottesca della fantasia e in cui la struttura prende forma per poi distruggersi nei personaggi. A me piace molto ma sono d'accordo con la scelta di Alberto Barbera di non metterlo in concorso ma nella sezione Orizzonti: lo capiamo solo (o al 90%) noi italiani (ma avercene di film così). La colonna sonora pop diegetica ha momenti di alta poesia come QUESTO, quella jazz invece messa a commento delle vicende del protagonista Tatti Sanguineti è fuori luogo a mio avviso. Da vedere insieme o subito dopo o subito prima Io sono Tony Scott.

Italy in a day è un videocollage diretto da Gabriele Salvatores a partire da un'idea produttiva di Ridley Scott, a sua volta basta su un soggetto di Kevin Macdonald: video più o meno amatoriali di italiani dall'alba al tramonto: è un gigantesco inno alla vita con momenti toccanti, altri divertenti, altri patetici. Storie di eroi di tutti i giorni (una dottoressa VIDAS, un medico, ma anche nonni, bambini, ragazzi, fidanzati e fidanzate). Alcune riprese sono "dirette" o "sceneggiate" con un'inventiva e una capacità cinematografica che alcuni registi (Costanzo? Di Maria?) si sognano. Per il resto parlarne male è facile (e in un certo senso anche giusto), ma è letteralmente come sparare sulla croce rossa (sembra un film prodotto dalla croce rossa per la TV, in effetti). QUI il trailer, QUI una recensione più dettagliata.

La zuppa del demonio di Davide Ferrario è un'accozzaglia di interessantissimo materiale d'archivio, colonna sonora composta per l'occasione e frasi di poeti e personaggi illustri sull'idea di progresso tecnologico. Bellissimo titolo, ottima ricerca di materiale d'archivio, ma occasione sprecata: il troppio stroppia rischiando la noia e manca una vera idea registica su cui appoggiare la mole immensa di materiale d'archivio pescato nell'Archivio Nazionale Cinema d'Impresa di Ivrea (fimati da: Olivetti, Fiat, Italgas, Birra Peroni, ENEA e Filmaster).

 

Kanojo dame ga shitteiru (Only she knows it / restauri classici):  contrariamente agli altri anni vedo il primo film classico restaurato solo l'ultimo giorno poco prima di partire: si tratta di un film di Takahashi Osamu, assistente di Yasujiro Uzu per Viaggio a Tokyo (Tokyo story: FILM COMPLETO). La lezione di Ozu ( inquadrature a "altezza sguardo di cane" e il rigore, tra le tante cose) è stata assimilata da Osamu  anche se si tratta qui di un breve film di genere concentrato poco sull'azione e molto sui personaggi. nonostante la durata (63') risulta un pochino prolisso. Sarebbe però interessante vedere altri film di questo regista.

A pigeon sat on a branch reflecting on existence è di gran lunga il "titolo" più bello non solo tra i film in concorso ma tra tutte le sezioni. Il film chiude la trilogia (il primo era Songs from the second floor -2000- premio speciale della giuria a Venezia, il secondo il bellissimo You, the Living)  del grande regista svedese Roy Andersson (poco conosciuto da noi, ha esordito nel 1970 ma realizza pochissimi film, campa con le pubblicità sfogandosi poi con film di un congelato umorismo surreale). Inquadrature di accuratezza e eleganza pittorica sopraffina (il modello è dichiaratamente il Bruegel il Vecchio di Cacciatori nella neve - interessante vedere per esempio QUI come viene "costruita" una scena nei minimi dettagli), musiche leggere e divertenti che lasciano ampio spazio all'ironia e all'autoironia di un autore che osserva in modo entomologico la solitudine dei suoi personaggi stralunati e da teatro dell'assurdo (Vladimiro e Estragone e compagnia bella) senza nessun movimento di macchina e nessun primo piano o piano americano. Sono 39 inquadrature, a volte collegate dai personaggi, a volte collegate da un paesaggio, un locale, una tematica, una musica o un motivo musicale, un sottile legame da trovare o da tralasciare. Non so quanto possa essere utile questa indicazione ma con amici altamente cinefili (Matjaz e Maureen) arriviamo alla conclusione che " è come se Aki Kaurismaki avesse filmato scene di gruppo preparate da Otar Iosseliani". Dopo questo inutile e fastidioso sfoggio di saccenza (il giornalino che viene distribuito in sala non è da meno e dice "immaginate un'opera al fulmicotone dei Monthy Python più iconoclasti diretta da Manoel de Oliveira"), dicevo, dopo questo sfoggio arriviamo però tutti a concordare che dei 103 minuti, almeno 15 si sarebbero potuti tagliare (due scene sono un po' pretenziose anche se non si prendono troppo sul serio). Il titolo (che più ci penso più è meraviglioso) viene richiamato tre volte:
1) all'inizio un signore in una stanza di un museo di scienze naturali (sembra) guarda alcuni uccelli impagliati: uno è un piccione su un ramo
2) a metà film una bambina racconta alla recita di fine anno (forse) una poesia da lei composta su un piccione che medita su un ramo perché è rimasto senza soldi
3) mentre alcune persone alla fermata di un bus discutono sulla possibilità o meno di sentire se un giorno della settimana è mercoledì o giovedì (solo basandosi sulle sensazioni) si sente dall'alto un piccione che tuba
Le scene iniziali (su persone che all'improvviso muoiono) e quella a musical nel bar sono da antologia, ma lungo tutto il film sembra di guardare un'umanità in un acquario dove tutto è a fuoco (come in un quadro fiammingo) ma molto è solo suggerito, indicato, lasciato allo spettatore. “Amo confrontarmi – dice Andersson – con le domande esistenziali attraverso il prisma della banalità... Dopo il neorealismo e il cinema dell'assurdo, cerco oggi di proporre il trivialismo”.
Difficile che venga distribuito in Italia, a meno che non vinca.  QUI il trailer, QUI una recensione del Guardian, e di seguito alcune delle bellissime inquadrature.

 


lunedì 1 settembre 2014

venezia / giorno cinque parte seconda: della disonestà della critica

alla sera riesco a vedere altri due film. Il primo è un documentario (televisivo al 100%) di Tatti Sanguinetti su Giulio Andreotti (Giulio Andreotti - il cinema visto da vicino) e il suo rapporto (e le sue censure) con il cinema: a tratti molto interessante per il contenuto e il materiale d'archivio, è stato montato in modo quasi amatoriale, con tanto di livelli audio da sistemare.

Loin des Hommes (lontano dagli uomini - in concorso) è un western ispirato a Camus e ambientato in Algeria con Viggo Mortensen (che parla in francese) protagonista. Funziona perfettamente grazie a una bellissima fotografia di Guillaume Deffontaines e alle musiche di Nick Cave e Warren Ellis. QUI la recensione dell'Hollywood reporter. QUI il trailer. Ecco, forse il personaggio di Mortensen è un "pelino" troppo positivo: ben vestito, galantuomo, ottimo maestro di scuola e cecchino provetto...

 

Nel tardo pomeriggio assistiamo basiti a una serie di recensioni positive (tutte italiane, fa eccezione il Telegraph che Jon mi confida essere il corrispettivo inglese di novella2000 per quanto riguarda le pagine di cinema) del film di Saverio Costanzo. Tra queste alcune vantano 7 minuti di applausi in sala grande (che comunque vogliono dire molto poco) e un silenzio coinvolgente da parte del pubblico (sempre in sala grande) e della critica/industry (sala Darsena). Ho sempre avuto il sospetto che ci fossero persone disoneste e questa ne è la prova: io non ero in sala grande ma durante la proiezione in Sala Darsena metà sala rideva di gusto DEL film, pochi hanno applaudito, molti erano imbarazzati. Riporto la recensione dell'Hollywood reporter QUI, citandone la frase su cui concordo di più: "..but something is missing. something like credibility". Non si crede un secondo ai personaggi, alla storia, al modo in cui viene raccontata.

Per la cronaca: la più grande delusione di tutti (io non l'ho visto ma da quello che mi hanno detto concordo pienamente) è stata l'atteso film di Fatih Akin The Cut. QUI una delle tante recensioni negative (in questo caso non è un film italiano quindi ne possiamo parlare male anche noi quanto ci pare e piace, evidentemente).



domenica 31 agosto 2014

venezia / giorno quattro e cinque: al festival del cinema nuovo di Gorgonzola

Il giorno 4 lavoro quasi tutto il giorno, ma riesco lo stesso a trovare un buco per incastrarci Manglehorn (in concorso) e vedere ancora una volta Al Pacino. David Gordon Green è un buon regista (a me era piaciuto molto soprattutto Prince Avalanche) che qui però gira in folle, anche per colpa di una sceneggiattura inconcludente e impalpabile. Si salvano solo la fotografia (in parte) e la colonna sonora che -come in Prince Avalanche- è degli Explosions in the sky (anche se in queste condizioni diventa piuttosto didascalica). Ruolo importante per il regista Harmory Korine (che sembra giocare con il suo ultimo Spring Breakers).


il giorno successivo (oggi) è la volta dell'imbarazzante Hungry hearts, un capolavoro di comicità involontaria di Saverio Costanzo con l'immancabile (in un film italiano che voglia dirsi d'essai) Alba Rohrwacher: un dramma thriller familiare con una regia che si addice a uno studente un po' pretenzioso di 18 anni con una morbosa passione per la sua ultima nuova scoperta: il fisheye. Dialoghi completamente risibili, musiche cliché, regia che non sa dove andare a parare. su 109 minuti 103 sono di troppo (la prima scena prima dei titoli d'inizio è carina). un film che non ha nessun senso produrre (girato a New York per giunta), girare, distribuire, né tantomeno selezionare in un festival che non sia il festival del cinema nuovo di Gorgonzola. Qualcuno (ben pagato, spero) applaude alla fine, molti se ne vanno durante.
Pare giocarsela per bruttezza con La vita oscena di De Maria (anche se questo sembra inarrivabile, dicono) e con il francese 3 coeurs (nonostante il rigoglioso casting: Charlotte Gainsbourg, Lea Seydoux, Chatherine Deneuve e Chiara Mastroianni). 

spero di vedere qualcosa di meglio in serata, anche se purtroppo temo non riuscirò a vedere l'atteso Belluscone una storia siciliana di Maresco.

sabato 30 agosto 2014

venezia / giorno due e tre: in cantina

Essendo qui più che altro a lavorare purtroppo riesco a vedere solo pochi film. Il giorno due ho visto solo un documentario, alle 22.00 in una sala Darsena drammaticamente vuota.  Era un po' uno dei film che aspettavo da tempo (per il regista ma anche perché mi interessano molto le cantine - giuro). Il film è questo:

Im Keller (in the basement) di Urlich Seidl che, reduce dalla trilogia di Paradise, realizza un film che è un po' un saggio delle sue tematiche e della sua poetica (che molti sbolognano come "provocatoria" -c'è certamente anche quello). E' un documentario (molto messo in scena, ma qui è necessario) sulla cantina come luogo (fisico e simbolico) dove nascondere o contenere le proprie perversioni, la parte più intima e più grottesca di sé. Nessuna musica, una bellissima fotografia che rende iperrealistiche le immagini: la prima parte è nettamente superiore alla seconda, dove le perversioni sessuali hanno il totale sopravvento (alcuni frangenti non sono così semplici da vedere, tipo: un guardiano teatrale cui piace sentirsi sessualmente dominato che lecca water, doccia, e altre simpatiche cose e a un certo punto viene sollevato per le palle, letteralmente, dalla propria mistress. e mi fermo qui). almeno due personaggi però rimangono ben impressi: un ex cantante lirico che in catina va a tenersi in allenamento con le armi da fuoco e un nostalgico nazista che usa la cantina per suonare strumenti a fiato e vedersi con gli amici. La seconda parte a me, personalmente, ha un po' stancato, forse perché la più smaccatamente provocatrice e quella in cui Seidl sembra divertirsi di pù a fare il Seidl.  Vi lascio qualche immagine (fotograficamente il film non perde un colpo) e QUI una bella recensione dell'Hollywood reporter.





Voci di corridoio (italiane e non) lodano in coro l'italiano Anime nere di Francesco Munzi, mentre il nuovo film di Xavier Beauvois Le rancon de la gloire sembra aver diviso in due tutti: ai più snob -quasi tutti francesi- è sembrato essere piuttosto commerciale e inutile, ad altri invece (perlopiù italiani, spagnoli e latinoamericani) è vagamente piaciuto. Non lo consiglierei in ogni caso.
il terzo giorno vedo la commediola di Peter Bogdanovich She's funny that way (fuori concorso): un omaggio alla screwball comedy (sin dai titoli), prodotta da Wes Anderson e Noah Baumbach, con un cast che recita sopra le righe ma che diverte (doppiato il film rischia di diventare un cinepanettone leggermente evoluto) nonostante la mole di coincidenze e le falle di sceneggiatura. Il personaggio di Owen Wilson sembra scritto per Woody Allen (cui infatti sembrava spettare la regia fino a un certo punto). L'avessi visto su un computer e doppiato avrei probabilmente abbandonato dopo mezz'ora ma in una sala Darsena (seppur mezza vuota, ancora) che applaude alle battute e ride di gusto tutta all'unisono è stato un piacere. Cameo ndivertente di Quentin Tarantino nel finale.

alla sera sono un po' stanco per la giornata piena ma provo lo stesso a vedere The Humbling di Barry Levinson (dormirò solo 10 minuti). E' tradizione mia e di Jon andare a vedere un film per Al Pacino, e anche questo anno non ne restiamo delusi. Basato su un romanzo di Philip Roth dalla trama simile a Birdman mescolato con una specie di Lolita, il film poggia sulle solide spalle di Al Pacino (che spazia da monologhi alla shakespeare con voce gutturale a bofonchiamenti comici nella sala d'attesa di un veterinario) e di Greta Gerwig (se riuscite recuperate Frances-Ha, a proposito). Come nel caso precedente sarà invedibile doppiato. Niente di ecclatante in ogni caso, ma essendo arrivato a film inziato mi sono dovuto sedere nella prima fila all'estrema destra dello schermo per cui non ero nelle condizioni ideali per giudicare molti aspetti: rimando alla recensione del Variety.

mercoledì 27 agosto 2014

venezia / giorno uno: The look of silence - Realité

Eccomi nel caldo afoso di Venezia.
Anche in sala c'è un'aria torrida, tollerabile nella rinnovatissima -ed enorme- Sala Darsena (quasi "bella" e anche molto elegante, tutta in grigio), al limite del sopportabile nella piccola Sala Volpi. Per la prima volta il Lido non è così gremito di gente, anche se -dicono- da domani si popolerà esponenzialmente.

parto dalle voci di corridoio. sono voci molto fidate (e competenti) per cui le prendo per vere. alcune vengono da Paula (ex direttrice della cineteca messicana), altre da Raymond (direttore del cinema Rialto, Amsterdam), oltre che il mio solito amico Jon (quindi pressoché inappuntabili).

Birdman di Alejandro Gonzalez Inarritu (che si scrive con accenti vari che non so dove andare a prendere). ecco il TRAILER
Il film d'apertura (in concorso) vede uno straordinario Michael Keaton (concordano tutti) alle prese con una storia che sembra ispirata a se stesso (Birdman=Batman) e che tira dentro Raymond Carver. Una serie di piani sequenza ottimamente calibrati e un'ottima prima parte (concordano tutti) non salvano una seconda parte che pecca di "pretentiousness", "come quasi tutti i suoi film" (concordano e concordo - nessuno è un grande amante del messicano...).

La vita oscena di Renato de Maria è di gran lunga il film più schifato dai miei amici stranieri (qui il miglior modo di giudicare un film italiano è fidarsi dei pareri stranieri: quelli italiani ne stemperano sempre la bruttezza). i pochi che sono entrati a vederlo (molti per sbaglio) lo sbolognano in fretta tanta è la pochezza in gioco (pare). non muoio (confessione personale) dalla voglia di vedere un film di De Maria perdipiù basato su un libro di Aldo Nove. incontro anche un critico italiano: mi dà ragione (e lui l'ha visto).

invece ho visto (e mi sono piaciuti entrambi parecchio)

The look of silence di Joshua Oppenheimer (in concorso). Documentario nato da una costola (ben sviluppata poi in modo a sé stante) del bellissimo The act of killing, ma che segue una linea narrativa più semplice e tradizionale: la ricerca della verità sull'uccisione del fratello vittima del genocidio indonesiano, diventa per il protagonista (che fa l'oculista e vuole vederci chiaro ma soprattutto far vedere meglio gli altri) un viaggio nella banalità ma soprattutto nell'omertà e accettazione drammatica del Male. Molto bello, alcune scene sono molto toccanti e potenti, è ben montato, senza musiche, e con una bellissima fotografia (qua e là non così richiesta e un po' stona), forse è troppa la messa in scena di alcune parti per essere duro come dovrebbe: ecco, se c'è una critica da fare è che è troppo estetizzante in alcuni momenti (anche qui concordiamo tutti: oggi andiamo abbastanza d'accordo, pare). In ogni caso vivamente consigliato.


Reality di Quentin Dupieux (orizzonti). Mi viene consigliato da un ragazzo francese, e io mi fido anche perché non ho mai visto niente del delirante regista conosciuto anche come Mr. Oizo (e compositore di musica elettronica oltre che regista). Sulla strada per la proiezione incontro tre persone che non si conoscono che lo hanno visto da poco e mi dicono (li incontro in momenti diversi) tutti la stessa cosa: "it's weird". sarà anche strano (avevano proprio ragione: "strano" è l'aggettivo giusto) ma ci diverte molto ed è fresco, nuovo, libero: un gioco di scatole cinesi che non si prende mai sul serio, anzi. 
trama: Un cameraman di una trasmissione tv decide di fare un film sci-fi in cui i televisori spappolano il cervello degli umani. Il produttore gli dice che ok, ti do i soldi, ma solo a patto che il film contenga un gemito così pazzesco da meritare l'oscar. Il regista va alla ricerca dell'urlo perfetto mentre sullo schermo la storia si intesse in modo sempre più fuori-di-testa con 
1) un film thriller (in apparenza) di un (geniale?) regista che frequenta lo stesso strambo produttore del protagonista regista-cameramen
2) i suoi incubi (suoi del regista-cameraman) 
3) i suoi incubi (suoi del conduttore della trasmissione tv per cui lavora il regista-cameraman) e la sua ipocondriaca paura di un eczema cutaneo
4) i loro incubi (loro un po' di tutti, soprattutto del preside della bambina del film thriller del regista geniale) 
5) un eczema mentale diffuso tra tutti, anche gli spettatori. 
un gioco sulla visione, sul cinema, sulle storie, un inception sconnesso e costruito come una commedia surreale dai toni sospesi. un casino divertente, insomma. spero verrà distribuito, merita. il regista presenta così il suo film:

Tre anni fa stavo dirigendo Rubber, il mio secondo lungometraggio, con un pneumatico nel ruolo principale. Mi piaceva molto l’idea di sostituire l’attore con un oggetto animato, più facile da dirigere e meno esigente di un essere umano. Purtroppo non avevo niente in comune con questo pneumatico, che sul set era sgradevole e completamente passivo. Da Wrong in poi, sono stato costretto a lavorare di nuovo con persone reali e da allora non ho smesso di apprezzarlo. Nel 2012 ho girato due film a Los Angeles (grazie a Grégory Bernard e alla Realitism Films). Il primo è Wrong Cops. Questo film è sporco, stupido e semplice. Il secondo, Reality, è integro, intelligente e intricato. Al momento entrambi sono in fase di montaggio. Sono i migliori film che abbia mai realizzato. (da “Les Cahiers du Cinéma”, gennaio 2013)

ps Ah, "Realité", il titolo, è anche il nome della protagonista del film thriller nel film, giusto per incasinare ulteriormente il tutto. e la colonna sonora del film riprende un bellissimo album di Philip Glass, QUESTO

lunedì 17 febbraio 2014

berlinale 2014: cronache entomologiche della fauna del festival

quelli che "sono uno dei produttori", arrivano senza biglietto e con un accredito uguale al tuo ma devono per forza entrare
quelli che stanno 2 ore tra le 6 e le 8 del mattino in coda sottozero per prendere i biglietti di Monuments Men che poi vedranno una settimana dopo nella loro città
quelli che sbuffano tutto il film (ma se lo guardano tutto) e alla fine dicono "certo che Tsai Ming Liang ha perso ispirazione ultimamente: ah, come è diventato didascalico!"
quelli che escono dal film dicendo "ah come mi manca Dreyer" (è morto nel 1968 n.d.r.) 
quelli che hanno una sola maglietta ma dicono di averne 6 identiche
quelli che si vedono 6 o 7 film al giorno per 10 giorni e poi sono un filino stanchi
quelli che con elegante nonchalanche ti superano in fila e poi ti sorridono gentilissimi
quelli che per temporeggiare in fila leggono libri di filosofia di duemilaottocento pagine per darsi un tono
quelli che, sempre per darsi un tono, dicono "arrivo direttamente in aereo dal festival di Rotterdam, quello sì che é figo" (di solito sono romani)
quelli che parlando di un film che é piaciuto a loro e al loro gruppetto dicono "ah quel film: capolavoro assoluto"
quelli che peró il cinema italiano é un'altra cosa
quelli che peró il cinema francese é un'altra cosa
quelli che hanno un film in una sezione e gli altri film sono delle ciofeche (solitamente sono di Parigi o di Teheran, o di Teheran trapiantati a Parigi)
quelli che ci scappa la pipì e sono in fila in una buona posizione e sanno che non possono mollare
quelli che ci scappa la cacca e sono al centro della fila M del Palazzo della Berlinale: auguri
(quelli che hanno copricapi eccentrici tipo questo)

sabato 15 febbraio 2014

berlinale 2014: previsioni a vanvera

I due film favoriti (dalle voci che circolavano) mentre ero ancora a Berlino erano:
Kreuzweg (oggi dato come probabile Orso d'argento): ecco il TRAILER
e '71: eccone una CLIP
navigando sul sito della Berlinale è curioso che siano state premiati entrambi dalla Giuria Ecumenica del Festival (che viene dato un giorno prima).

Io non li ho visti, ma tra i due per quello che so mi sembra favorito il primo. Anche se poi la stampa italiana assegna quasi con assoluta certezza il probabile Orso d'oro a Boyhood di Richard Linklater di cui l'anno scorso avevo apprezzato Before Midnight (nella versione doppiata -che ha avuto poca distribuzione in italia- si perde il 90% del film). Dodici anni di lavoro, e Ellar Coltrane (nel film Mason) cresce un po' davanti alla macchina da presa raccontando una storia sull'infanzia. Anche questo non sono riuscito a vederlo perché ero già rientrato a Milano. Scrivo un sms a Jon, che sono certo l'abbia visto invece (ed è un fan di Linklater) e stranamente mi dice: "Yeah it was good but it also has some problems".


Qualche critico straniero non ha apprezzato così tanto come da noi. Al contrario Nymphomaniac mi accorgo essere stato mediamente stroncato dalla stampa italiana (tra tutte le recensioni, certamente quella fatta in modo più incompetente -anche per il numero dei refusi e delle imprecisioni- è QUESTA di Cristina Piccino de Il Manifesto) e francese (che forse non perdona "lo sgarro di Cannes"), mentre è piaciuto molto a tutti gli altri (vedi anche qui). Questa recensione mi trova abbastanza d'accordo.

Se dovessi scegliere tra quelli che ho visto, direi molto banalmente invece che i miei due favoriti sono Grand Budapest Hotel e Aimer, Boire et Chanter del vecchietto Resnais: entrambe commedie, entrambe leggere, entrambe con un grande lavoro sulla scenografia prima ancora che sulla regia e la recitazione. Ma trattandosi di registi già affermatissimi immagino che il Festival sarà più attento a Boyhood di Linklater (che proprio sconosciuto non è nemmeno lui eh...) e a Kreuzweg di Dietrich Brugghemann, che sarebbe decisamente il volto più nuovo.

oggi alle 19.00 saranno annunciati i vicintori, potete osservare la premiazione in diretta streaming anche sul sito della berlinale: QUI

venerdì 14 febbraio 2014

berlinale / giorno sette: gli altri due e quanto è bella Marlene Dietrich

Concerning violence è un documentario di Göran Hugo Olsson nella sezione Orizzonti Dokumente. Al contrario di Nymphomaniac è un film su cui parto prevenuto in positivo (le aspettative che ho prima di un film purtroppo mi influenzano molto il giudizio..): il regista svedese ha diretto il bel
The black Power Mixtape (si può vedere su youtube in 7 parti QUI) e utilizza sempre materiali d'archivio molto belli (e il trailer, qui di seguito non sembra smentire)
E' un documentario interessante sui movimenti di decolonizzazione africani proposti seguendo il testo (del 1961 ma pubblicato solo molti anni dopo) di Frantz Fanon The wretched of the earth. Il materiale d'archivio è ben montato e coinvolgente ma faccio fatica a lungo a mettere a fuoco il motivo per cui non mi sia del tutto piaciuto (e chiariamo: vale senza dubbio una visione). Certamente il continuo apparire di frasi "importanti" scritte su metà dello schermo (vedi già nel trailer) e la pomposa e un po' incazzata voce off di Lauryn Hill mi risultano alla lunga un po' didascalici. Alcuni punti del testo (e i concetti) così estrapolati e decontestualizzati per diventare slogan mi sembra che si banalizzino. I nove capitoli saltano da uno stato all'altro, da un anno all'altro, toccando alcuni argomenti molto interessanti in pochissimi minuti (Burkina Faso) senza mai sviscerare la complessità storica di ciascun episodio. I primi oltretutto sono molto più brevi degli ultimi e il film risulta molto sbilanciato. Il capitolo finale mi è sembrato vagamente ipocrita: la morale è di lasciare l'Africa agli africani e non proporre modelli occidentali, lasciando loro la possibilità di trovare una nuova forma di modello per gestirsi politicamente e socialmente, crescere, raccontarsi. Al di là della forse non originalissima morale (magari nel 1961 nuova ma oggi forse s'è anche già sentita), e al di là del fatto che non mi piacciono i film che non hanno dubbi su cosa sia giusto e cosa no (anche quando sono d'accordo con ciò che dicono), la domanda è: c'è bisogno di un regista svedese e della voce di Lauryn Hill in un film perfettamente in linea con la più tradizionale cinematografia europea per lasciarci questo messaggio? anche l'Hollywood Reporter solleva questa critica. Pappappero.

Il mio tentativo di vedere sei film nell'ultima giornata fallirà miseramente in uno scontro con il mio mal di testa e la lunga fila per vedere (mi diranno essere bellissimo) 20000 days on earth scritto da Nick Cave su se stesso (CLIP). Tra l'altro dobbiamo fare anche i bagagli. Però prima, alle 19.45 vedo il mio ultimo film (e quinto della giornata) alla Berlinale. Sezione retrospettiva: Shanghai Express del grande Josef Von Sternberg con la diva Marlene Dietrich. Sono passati più di ottanta anni e il film è fresco e coinvolgente come allora: diretto in modo da alternare pause romantiche, gag da slapstick, battute e toni da commedia, e film d'azione e avventura. Il duo Dietrich-von Sternberg funziona a meraviglia, i personaggi di contorno sono perfetti, la fotografia di Lee Garmes stramerita il premio Oscar che poi ha vinto. QUESTO VIDEO rende un po' l'idea del tutto.
Vedendo la Dietrich muoversi come una pantera e galleggiare nell'aria si esce un po' dal tempo, dallo spazio e dal mal di testa. 


E bisogna tenere presente che al suo fianco (nel film la Dietrich interpreta una prostituta d'alto borgo che viaggia con una "collega" cinese su un treno Pechino-Shanghai durante la guerra civile cinese) ha la bellissima Anna May Wong, la cui vita merita certamente un romanzo (io mi sono appassionato un casino anche solo leggendo Wikipedia QUI).


ps per amanti dei costumi i costumi della Dietrich nel film oltre a essere bellissimi e elaboratissimi si possono vedere (alcuni) nel bellissimo museo del cinema di Berlino.
ps per amanti di Tarantino la scena di Django Unchained con Di Caprio che dice "avevate la mia curiosità, ora avete la mia attenzione" cita una battuta di questo film di Von Sternberg.

giovedì 13 febbraio 2014

berlinale / giorno sette: i primi tre di oggi poi, con lentezza zen, gli altri

Colto da ansia di prestazione da giornata finale mi dirigo verso la fila che porta al film in competizione La tercera orilla, girato tra l'Argentina, la Germania e l'Olanda da una regista argentina. La sinossi non promette niente di buono ma è anche vero che tutte le sinossi del catalogo (per come sono scritte) non sono redatte in modo da stimolare la visione, mai.

Prima di entrare in sala vedo questa foto appesa fuori dalla sala (per Von Trier ogni occasione è buona per far parlare di sé: è il miglior marketing di se stesso - qui ovviamente in risposta alle polemiche di Cannes la sua maglietta recita "PERSONA NON GRATA - official selection Cannes").  ps: Uma Thurman è bellissima qui e bravissima nel film.


ecco il TRAILER del film di cui vi parlavo prima di vedere questa foto.
La regia è rigorosa e gli attori molto bravi ma manca qualcosa alla storia e lo snodo narrativo più importante è un po' forzato. Per farla breve (e banalizzandola molto) è la storia di un ragazzo che non accetta il nuovo compagno della madre. Niente di che, di certo non tra i migliori visti qui in competizione, ma non un brutto film.

Sono yo no tsuma è un capolavoro sconosciuto (del 1930 - e ovviamente sezione Retrospettiva) del grande Yasujiro Ozu e, accompagnato al pianoforte dal vivo (dalla brava Maud Nelissen), sprigiona tutta la sua dolcezza e poesia. 
Un gangster fa una rapina e poi scappa braccato dalla polizia. Nel montaggio alternato (con stacchi di rara intensità) appare anche una mamma che accudisce una bambina malata che deve sopravvivere alla notte. Il gangster rientra a casa: è il papà della bambina. Un poliziotto lo raggiunge. Ai primi dieci minuti di inseguimenti, strade, ombre, corse, si sostituisce presto un dramma raffinatissimo e dolce, che passa attraverso gli oggetti e gli sguardi (sono pochissimi i cartelloni), uno sbadiglio contagioso (tra il poliziotto e la mamma che lo tiene sotto tiro con due pistole in mano) che unisce e una divisa che divide ma forse non abbastanza. Tutto in una stanza, tutto in una notte. Un piccolo gioiello, commovente nella sua semplicità, diretto da un Ozu già incredibilmente maturo. Si può vedere online (diviso in 5 parti e mandato in onda a fuoriorario a QUESTO LINK) ma sfido chiunque a non emozionarsi mentre si fa buio, parte la proiezione e si inizia a sentire un pianoforte dal vivo.

Xi You (Journey to the west) è il nuovo film (sezione panorama - mediometraggio di 52 minuti di "meditazione," come ci viene presentato) di Tsai Ming Liang, premiato a venezia per Jiaoyou - Stray dog (che a me era piaciuto molto ma che richiede qualche sforzo allo spettatore) e ormai celebrato autore della Seconda New Wave del cinema di Taiwan.
Accanto all'attore feticcio Lee Kang-sheng c'è (poco) il geniale Denis Lavant (a proposito, per chi non l'avesse ancora visto, consiglio Holy Motors) per un film assolutamente insolito, inizialmente spiazzante: un elogio della lentezza e allo stesso tempo quasi un manifesto del cinema di Ming Liang, ma non solo. In tutto saranno dodici inquadrature (di cui alcune credo superino i dieci minuti) dalla calibratissima composizione fotografica: un monaco cammina lentissimo per le strade dell'Occidente (Journey to the west è il titolo di un romanzo del sedicesimo secolo, storico nella cultura e letteratura cinese). La trama è tutta qua, la "visione" potenziamente non si arresta mai.
Si tratta di qualcosa forse di più vicino alla videoarte, ma resta di una bellezza e di un contenuto molto alto che obbliga lo spettatore a vedere le cose da un punto di vista diverso. Almeno per un po'.
Il film è chiaramente parte di una vera e propria serie, intitolata Walker. Ecco un altro corto  del 2012 che rientra in questo progetto VEDILO QUI.

il film lo vedo nello splendido Kino International. Ecco quando presentano da dove lo fanno:

to be continued....

martedì 11 febbraio 2014

berlinale / giorno sei: in ordine di scomparsa

In order of disappearance,  succosa black comedy scandinava in competizione, a tratti esilarante, ben scritta, diretta e ottimamente recitata. Questa insolita storia di vendetta incrociata tra un vecchio padre cui hanno ucciso il figlio, gli assassini in questione e una banda rivale serba che in teoria non c'entra niente (capitanata da un Bruno Ganz in gran spolvero) non vincerà mai l'orso è perché fin troppo "commerciale", ma merita decisamente una visione:  una trama alla fratelli Coen diretta da uno scandinavo con trovate di sceneggiatura alla Tarantino.  L'inizio, cupo e serio, è molto sbilanciato rispetto al progressivo disfarsi verso il delirio comico. Ma forse il titolo originale, così a intuito, sembra dare una pista più chiara sul tono del tutto: Kraftidioten (perfetto e molto bello e calzante il titolo in inglese: ogni volta che muore un personaggio nel film -e sono parecchi a morire- appare un cartellone nero con il suo nome come a compilare una lista "in ordine di scomparsa"). 


Aimer, boire et chanter è la nuova commedia (in competizione) del mitico Alain Resnais, arzillo novantaduenne che ancora una volta utilizza il teatro come filtro per il suo cinema (e ancora una volta -dopo smoking/no smoking e Cuori, il bel testo è di Alan Ayckbourn - Life of Riley è anche il titolo inglese del film):  messa in scena impeccabile, ottima fotografia e scenografia e un cast d'attori bravissimi. Teatro filmato, sì, molto, ma di gran classe: il TRAILER spiega meglio di molte parole in che senso. L'ex nouvelle vague Resnais usa disegni e musiche da burlesque per giocare con il mezzo cinematografico e non prendersi troppo sul serio.


The galapagos affair: when Satan came to Edenon capiamo bene in che sezione sia ma il tema sembra interessante e il TRAILER ci incuriosisce molto. In effetti è una storia pazzesca, una di quelle che se fosse finzione diremmo "seee, e poi?". E' la storia di un lui (filosofo seguace di Nietzsche) e una lei entrambi sposati con altri che decidono di mollare tutto e di andare a vivere nella più disabitata delle isole delle Galapagos (siamo a inizio Novecento). Lì la convivenza fra di loro e -soprattutto con le altre due nuove coppie che arrivano- piano piano inizia a mostrare momenti di tensione. Una falsa contessa arriva con il suo nuovo compagno e il suo ex marito e poi scompare nel nulla con il suo fidanzato mentre l'ex marito scappa subito dopo per morire nel tragitto. Le vicende (alcune misteriose e senza soluzione) di questi tre nuclei  si intrecciano a quelle di chi vive oggi alle Galapagos e ha mollato la civiltà. incontri alla fine del mondo ben montati e con un'enorme quantità di materiale d'archivio estremamente interessante: molto Herzoghiano nella storia ma purtroppo non nella forma, è comunque un documentario che coinvolge e tiene viva l'attenzione dello spettatore per le due ore della sua durata.



lunedì 10 febbraio 2014

berlinale / giorno cinque: die andere heimat

Dopo poche ore di sonno mi ritrovo in qualche modo al palazzo della berlinale a vedere un film cinese in concorso che inizia alle 9. La sala è mezza vuota e c'è una buona percentuale di stampa cinese.Il fim si chiama Tui Na ed è di Lou Ye.
Di tanto in tanto cinesi di fianco a me ridono per alcuni scambi che a me non sembrano per niente divertenti e allora mi parte la solita triste impotente considerazione: non potremo mai capire I film di lingue a noi totalmente sconosciute anche se sottotitolate in un'altra lingua: un tono, una pronuncia, una sfumatura culturale e in un attimo un dialogo serio ecco che diventa comico (o viceversa). Ovviamente il doppiaggio non è la soluzione,  anzi. Ma mi sale una certa rassegnazione all'incomprensione. Scaccio il pensiero e mi immergo in un film che alterna momenti estremamente poetici a fulminanti accelerazioni di violenza, riuscendo a raccontare e affrescare le storie d'amore,  le sensibilità,  le domande (esiste la bellezza? )e le solitudini di un gruppo di ciechi che lavorano in un centro massaggi gestito interamente da loro (il titolo è tradotto con "blind massage"). Da segnalare le emozionanti musiche di Johansson, le scene di pioggia a scandire il passaggio del tempo e le solitudini,  la recitazione degli attori (quasi tutti ciechi) e alcuni momenti di alta regia. Forse qualche momento drammatico di troppo e qualche utilizzo del fuori fuoco non troppo necessario. 

E' una splendida giornata di sole. Il cielo azzurrissimo non ammette nemmeno una nuvola al suo cospetto e la gente si riversa nelle strade e nei parchi, specchiandosi nei palazzoni nuovi e nelle lenti da sole di altri passanti. Sono le 12.45 e io saluto questo sole per entrare in una sala minore dello zoo palast. Da bravo nerd disadattato arrivo con un'ora e venti minuti d'anticipo e non solo non c'è nessuno in fila ma non c'è nemmeno la fila e nemmeno lo staff della biennale (quando arrivando mi vedono in piedi a immaginarmi una fila mi trattano come un povero ritardato). E' l'unico film barrato nel mio programma come "imperdibile", anche perché l'ho già perso una volta a Venezia lo scorso settembre.


Del resto Die andere Heimat è uno di quei film che uno aspetta da tanto e che nel 90% dei casi poi vede (se va bene) sul computer o (se va benissimo) compra in dvd per menarsela con gli amici che vedranno il cofanetto nel salotto (in questo caso non è necessario vederlo, pare). Il film è presentato in una sezione a parte (chiamata "sguardo sul cinema tedesco") e in realtà è già uscito al cinema qui e in altri paesi europei (in Francia è stato proiettato 120 volte, mi dice con la solita punta d'orgoglio nouvelle vague il mio amico Boris, di Amiens). 
È un film di 4 ore (senza pausa), ed è il quarto della storica serie Heimat, diretta da Edgar Reitz: non si tratta del quarto capitolo in senso cronologico perché è in realtà una sorta di prequel ambientato nell'Ottocento, prima di Heimat 1. Il titolo è from home to home, ma quell'"home" è la traduzione impossibile da riferirsi al tedesco "heimat": casa, patria,  area (fisica, mentale, atemporale) in cui si è cresciuti.
La sala 2 dello Zoo palast è grande ma intima, è tutto rosso che sembra uscito dal set di sussurri e grida di Bergman e faccio anche una foto -sfocata- (con Edgar Reitz sul palco) per farvi capire: sono in un'altra dimensione.
(Se prendete la piantina della sala, tirando le linee dai vari angoli a quelli a loro opposti otterreste una raggiera che si incrocia tutta in un punto centrale: ecco io sono seduto proprio lì.)

Inquadrature di una bellezza rara e momenti indimenticabili (una dei protagonisti che saluta la sua immagine riflessa in uno specchio di casa prima di emigrare in sudamerica / la morte dello zio mentre fila la lana / la fiera di paese / la mamma in mezzo ai campi che respira l'aria buona - e molte altre). E' un film che davvero non può durare meno (e che risucchia completamente nella storia e negli ambienti), ricco di rimandi interni e rime, di poesia e di emozioni, di vita comune e lavoro manuale, con una forza visiva e emotiva rara. E non mancano nemmeno i momenti divertenti e almeno uno (anche grazie a un autoironico cammeo di Werner Herzog) è davvero esilarante.
Ė il capitolo che forse più degli altri andrebbe visto al cinema ed è assolutamente vedibile anche da solo, senza aver visto i precedenti. 
Forse uno dei più bei film che ho visto negli ultimi dieci anni.
amen.
ecco l'immagine della splendida giornata di fuori vista dai vetri del cinema





domenica 9 febbraio 2014

berlinale / giorno quattro: ninfomania, pint eastwood e compagnia bella

Di domenica è più difficile riuscire ad entrare alle proiezioni visto che il pubblico non lavorante è molto numeroso. Facciamo inutilmente un'ora e mezza di fila per cercare di entrare a vedere Calvary (TRAILER) il nuovo film di John Michael McDonagh, regista di The Guard, arrivato timidamente in italia con il fantasioso titolo di Un poliziotto da happy hour (peccato:secondo me era molto bello)
E falliamo anche l'ingresso a un altro film di cui non so nemmeno il titolo.

ne riusciamo però a vedere tre. Sono:
Historia del miedo (history of fear), in competizione. 79 minuti che sembrano tre ore:  storia simbolica sull'isolamento dei ricchi e della loro vita su una facciata di normalità che va piano piano a scricchiolare. Ritmo lentissimo, trama quasi inesistente, non ci sono protagonisti ma solo un affresco di situazioni che si susseguono tenute insieme da una tensione piuttosto fine a se stessa. Forse il film peggiore visto a questa berlinale (il livello è comunque molto migliore rispetto agli anni passati).

Shemtkhveviti paemnebi (blind dates), sezione forum. Ci arrivo già un po' provato (e mi stanco anche solo a provare a pronunciarne il titolo) dopo le due file andate male e alle 22.00, per cui consiglio di leggere la recensione dell'hollywood reporter: QUI. Si tratta di una bella commedia georgiana popolata da uomini inconcludenti e donne con le palle, da genitori invadenti ma irresistibili e paesaggi desolati ma affascinanti (e fotografati benissimo). Il filo conduttore è un humour alla kaurismaki, un po' melanconico un po' cinico, pervaso da un vago senso di solitudine. Merita una visione, ma dubito uscirà mai in Italia.


La mia hit del giorno è a sorpresa (sono banale, lo so) Nymphomaniac vol.I di Lars Von Trier (presentato fuori competizione), a dispetto del TRAILER e del marketing che mi aveva lasciato un po' perplesso.
sito web del film
Al festival vediamo la versione lunga e non quella tagliata (30minuti circa di differenza) che uscirà in Italia (speriamo) e che è già uscita in metà europa. Le scene di sesso estremamente esplicite sono ovviamente funzionali alla storia e non provocatorie, la narrazione procede per capitoli seguendo il racconto della protagonista (una bravissima Gainsbourg). I toni (tranne in un capitolo -il meno riuscito secondo me, intitolato Delirium e girato in bianco e nero) sono quelli della commedia (che non si prende troppo sul serio) e il terzo tassello della cosiddetta "trilogia della depressione" funziona benissimo: le due ore e mezza circa volano dando vita a momenti di grande cinema (la scena con Uma Thurman è una delle migliori di tutta la cinematografia di Von Trier).  Christian Slater manca il bersaglio del suo personaggio (sta per morire in ospedale e non è, non dico dimagrito, ma nemmeno spettinato) e anche Shia LeBeouf perde qualche colpo (tra l'altro mi dicono gli anglofoni che entrambi gli attori ora citati cercano, da americani, di pronunciare le parole in accento inglese e lo fanno davvero male, a quanto pare), ma gli altri sono perfetti e la storia della protagonista è davvero ben scritta e diretta. La ricerca del piacere sessuale (e del suo apparente-contrasto: l'amore) visto come pescaggio-gara prima e come contrappunto musicale poi, è un buco di solitudine che il regista analizza e narra in modo preciso e coinvolgente (c'è tutto Von Trier eh: lo dico per chi ci piace già). Prima dei titoli finali si vede un velocissimo montaggio  di cosa ci aspetta nel volume II (risposta superficiale: ancora più scene di sesso, ancora più estreme) mentre martella la canzone dei Rammstein che pompava i timpani anche all'inizio del film (un inizio, prima della musica intendo -ho un problema con l'heavy metal mi sa-, davvero bello). Per la cronaca: in tanti ipotizziamo che, per come è costruito il film, se ne potrebbe trarre una serie tv, una specie di How i met your mother sulla ninfomania.
Sui titoli di coda, proprio alla fine, si leggono i nomi (d'arte) delle controfigure per le scene di sesso spinto, vale la pena ricordare uno pseudonimo davvero creativo: Pint Eastwood.

ps
domani in teoria mi guarderò solo due film. Però uno dura quattro ore, e ho grosse aspettative.

sabato 8 febbraio 2014

berlinale / giorno tre: is the man who is tall happy? e i demoni del cinema di hong kong

Dopo due film usciti un po' in sordina (Mood indigo- la schiuma dei giorni e -specialmente- The we and the I che invece secondo me era molto bello e avrebbe meritato più attenzione, in Italia ma non solo) Michel Gondry ritorna con un piccolo documentario-intervista a Noam Chomsky realizzato nel corso degli ultimi anni in modo intimo, con pochissimi mezzi di ripresa ma tantissime idee visive e una forma assolutamente nuova: si tratta di un film d'animazione, verrebbe quasi da dire di "illustrazione" a un'intervista.
Gondry come suo solito pesca stimoli negli albori del cinema (per molti versi ricorda il corto Phantasmagorie di Emile Cohl, 1908) per realizzare qualcosa di nuovo, fresco, leggero e allo stesso tempo pieno di significati, raffinato e coinvolgente. Con immagini assolutamente uniche e un'animazione tanto semplice quanto poetica (e con una lunga lavorazione, vedere per credere) Gondry "anima" Chomsky e le sue teorie e idee, ma anche i suoi desideri e i suoi "piaceri", parlando di ispirazione, di linguistica, di aneddoti, di politica e di tanto altro.
E' il mio film preferito finora, ecco il TRAILER e la bella locandina (per dovere di cronaca vi informo che la BBC mi ha intervistato a riguardo, ecco perché ho scritto cose con una parvenza di serietà: mi ero calato nella parte):


Mi capita poi fra le mani un articolo da cui non mi riprenderò: Werner Herzog sta lavorando a un film con, tra gli "attori", Pamela Anderson e Mike Tyson. Cerco di non pensarci.

Dopo un momento di relax con alcuni miei amici che non vedo da tanto tempo, in Alexander Platz mi aspetta, al cinema Kubix -che infatti è molto cubico-, un film che Jon mi obbliga a vedere perché prodotto da Terrence Malick: si tratta di The better angels di A.J. Edwards, che racconta uno stralcio di vita nell'infanzia di Lincoln (sezione Panorama). Una fotografia in bianco e nero ammaliante e una regia che deve molto all'ultimo Malick (sembra quasi ripeterla) ma che non si lascia andare nel troppo che stroppia nemmeno nell'uso delle voci fuori campo. Alcune tematiche pervadono lo schermo seguendo il ritmo delle stagioni: Il rapporto del piccolo Lincoln con la natura, con il ruvido padre, con l'amore profondo per le due figure per lui più importanti (la mamma biologica e quella che lo ama e lo cresce dopo la morte della prima). Qualche momento è un po' troppo solenne e enfatico, mentre la recitazione non è sempre azzeccata (Diane Kruger è bellissima e bravissima ma è completamente fuori parte) con una musica un po' troppo pomposa. Molto Malickiano (?) e allo stesso tempo molto meglio di To the wonder

Per concludere in bellezza andiamo allo Zoo Palast che ha appena riaperto i battenti dopo tanti anni (ed è bellissimo e con poltrone comodissime) a vedere un film di Dante Lam, maestro del cinema d'azione di Hong Kong e "erede" di John Woo. Si tratta di Mo Jing (The demon within) ed è uno di quei casi in cui il TRAILER parla da sé. E' la storia di un poliziotto che salva la vita, donandogli il sangue, a uno dei capi dei criminali e da allora tutti i fantasmi del suo passato (che non sono pochi...) fanno esplodere le sue fragilità psicologiche già evidenti (e quasi sempre connesse al fuoco: suo papà muore bruciato durante una manifestazione contro la polizia e lui stesso, giocando con un fiammifero da bambino, aveva dato fuoco a casa sua uccidendo il nonno e la nonna). La morale del film, ne concludiamo, è: meglio non giocare col fuoco e con i film di hong kong di nuova generazione. La fotografia è scadente, gli effetti speciali tra il grottesco e quel comico involontario che è sempre un piacere vedere, ma del resto si tratta di un film di genere che di più non si può, capace di scene di rara poesia (una vecchia fa cadere un cesto di arance giù per una via e tutti la aiutano) subito dopo un inseguimento sulle impalcature di un palazzo con conseguente esplosione di due macchine, di una pompa di benzina, di due negozi, di uno specchio con visioni demoniache e così via, a catena, fino a quando non bruciano vivi anche due uomini. Certo lo schermo che si tinge di rosso ogni volta che parte il delirio del protagonista non era del tutto richiesto, ma tutto sommato ci lascia diverse perle su cui giocarci le gag della serata.


E Herzog forse in questo momento sta dando il ciak a Pamela Anderson e Mike Tyson. 







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venerdì 7 febbraio 2014

berlinale / giorno due: al Grand Budapest Hotel e dintorni

Ci alziamo alle 6.40 per recuperare qualche ambìto biglietto almeno per sabato. Ma appena arriviamo intravediamo una fila spuntare quasi due isolati prima dell'ingresso e decidiamo di andare direttamente nella fila dei reietti (ovvero "altri pass") per sperare di entrare a vedere Jack , film in concorso il cui protagonista è un bambino (nonché figlio della migliore amica della nostra vicina di fila, per dovere di cronaca). E' un film che prende lo spettatore soprattutto per i personaggi e la bravura dei due piccoli protagonisti, nonostante la ripetitività di qualche musica di troppo e di qualche espediente narrativo un po' tirato per le lunghe (per un quarto del film i due protagonisti cercano la mamma e continuano a seguire piste sbagliate e congetture un po' campate per aria): è una storia molto simile ai 400 colpi di Truffaut e allo stesso tempo a Il piccolo fuggitivo di Ray Ashley, Ruth Orkin, Morris Engel. Nel pomeriggio vediamo il piccolo attore a passeggio con la nonna e decidiamo che meriterà il premio come migliore attore. E' un film molto carino comunque, anche se già visto.

Il tempo di uno snack e rientriamo in sala per un bizzarro remake di un film francese (molto bello) Deux hommes dans la ville del 1973 (di un regista dagli alti molto alti e i bassi molto bassi: José Giovanni. tra gli alti segnalo Ultimo domicilio conosciuto): al posto di Alain Delon c'è il bravissimo (ma bizzarro qui) Forest Whitaker (e al suo fianco un vecchissimo Harvey Keitel a interpretare un altro "cattivo tenente"). E' un film (anche questo in concorso) insolito che a me piacicchia ma non ai miei compagni: gli attori recitano distaccati dai personaggi e sul poliziesco della trama originale si innesta una dilatazione spaziale e temporale che più western di così si muore. Una sorta di History of violence asciutta, lenta e per certi versi non incisiva. Sintetizzando è la storia di un uomo che esce di prigione e si trova schiacciato tra un poliziotto che non l'ha perdonato e la malavita che lo rivuole. Trascurabile.

intervallo: nel pomeriggio facciamo un giro al museo del cinema. Se capitate qui andateci, è sempre molto bello e, per gli appassionati di selfie, se ne fanno alcune che prendono un sacco di like su facebook (testato garantito).

Prima di parlare del Grand Budapest Hotel su cui tutti mi stressano dall'Italia (anche gente che non conosco e mi chiama sbagliando numero) parlo del film che ho visto subito dopo: The Dog, documentario nella sezione Panorama Dokumente sul personaggio che ha ispirato il film di Sidney Lumet Quel pomeriggio di un giorno da cani (1975). Già dal TRAILER si capisce bene di che tipo di documentario si tratta (personaggio molto eccentrico che si racconta in prima persona -molto spazio è giustamente dedicato all'organizzazione della rapina alla banca decisa per pagare l'operazione del fidanzato del momento che si vuole fare donna-  ma anche attraverso interviste a amici, parenti ex fidanzate e fidanzati e molto materiale d'archivio ben orchestrato e diretto). Nella seconda parte la miscela è un po' annacquata e il film si perde in lungaggini non necessarie.

Allora, tocca finalmente a 
è un bel film che passa in un baleno: ritmo serratissimo (più dei precedenti), attori e attoroni e attricissime in parti importanti e in cammei fulminanti, musica di Desplat alla wes anderson, cura maniacale per le scenografie e i dettagli (sembra tutto fatto a mano, come al solito) e riprese alla wes anderson che tendono all'animazione, alla grafica e talvolta alla videoarte, riuscendo a coniugare citazioni più o meno colte del cinema (karel zeman, kubrick o le trou di becker per dirne alcune) con gag al limite del demenziale (gatti lanciati dalla finestra e trovati spiaccicati per terra a pochi centimetri da qualcuno) senza soluzione di continuità. E' un tripudio di colori, montaggio, musiche, tecnica cinematografica (sempre  alla wes anderson, anche se ha rinunciato agli slow motion fabbrica della casa, questa volta), attori bravissimi, trovate visive, gag.... con persino lo schermo che diventa in 4:3 nel racconto dentro al racconto (narrativamente è organizzato a scatole cinesi). 
E' tutta una grande favola che gira attorno ai gestori dell'Hotel del titolo e all'Hotel stesso, e quindi non esiste limite all'immaginazione e all'inverosimiglianza e assurdità di molti snodi narrativi. Anzi forse un limite ce l'ha: è la continua voce narrante (è un film parlatissimo con la voce narrante che racconta di un racconto in cui appare poi una seconda voce narrante). 
In sala c'è tantissima gente ed è bello sentire le risate ai film di wes anderson: c'è sempre gente che ride nei momenti più improbabili in totale asincronia con i vicini.
Alla fine tutti applaudono e si godono la musica dei titoli di coda fino al nero dello schermo e le luci che si accendono. Non me ne vogliano i sempre più numerosi tifosissimi di Anderson, ma se c'è qualcosa di negativo da dire su film (e forse non c'è) è proprio questo essere a tutti i costi  alla wes anderson. Un esempio pratico: il film inizia su un'inquadratura alla wes anderson: il pubblico ride. Non che l'inquadratura faccia ridere di per sé, ma si ride perché si riconosce che è davvero alla wes anderson: è quasi un'autoparodia compiaciuta. Non che sia una cosa per forza negativa eh (anzi ora che la scrivo tutto sommato mi sembra anche una cosa divertente e intelligente), ma alla fine forse un po' rischierà di stancare come giochino. Di certo non a questo giro.
ps la mia menzione d'onore va a un'inquadratura in cui una lunghissima scala di metallo, scorrendo velocissima (ovviamente perfettamente simmetrica al centro dello schermo), si trasforma idealmente in una pellicola cinematografica che passa davanti all'occhio dello spettatore.





ecco una foto delle crape dall'alto del Berlinale palast - proiezione del mattino di Jack (ero alla prima fila della balconata)













giovedì 6 febbraio 2014

berlinale / giorno uno postilla (un film assurdo)

Insomma entriamo dopo varie peripezie a una delle proiezioni serali (non c'è molta scelta stasera, solo due), è un film della sezione panorama. E stiamo un'ora in fila anche se lo sappiamo che stiamo per vedere un film vietnamita di science fiction ambientato nel futuro. Giuro. Si tratta di Nước (titolo inglese 2030, ovvero l'anno in cui è ambientato) "dall'acclamato regista di Buffalo boy" (?): Nghiêm-Minh (per la cronaca: io non l'ho mai sentito nominare e ancora oggi non saprei pronunciarlo). Lo so che ci tenete a vedere il trailer: siatemi vicini. TRAILER
"Metà sci-fi, metà thriller, metà storia d'amore, metà film apocalittico", recita l'intimidatoria sinossi: devo dire che in effetti è davvero così, uno strano ibrido non brutto e con alcune immagini molto d'effetto. E' una sorta di waterworld con Kevin Costner in versione vietnamita, con tempi dilatati e ovviamente senza Kevin Costner ma con una donna al centro della storia.
Un Vietnam sommerso sotto il livello del mare, suggestive scenografie a palafitta e riprese dall'alto su barche che solcano le sporche acque che nascondo storie e politiche ancora più sporche. Ma non immaginate un film di denuncia perché di fatto è una storia d'amore (anzi due) senza quasi alcun pathos, con tanti silenzi (e una musica a pianola fastidiosa che parte di tanto in tanto) e un finale che incalza all'improvviso (svegliandomi da un momento di stanca centrale). Insomma posso vantare di aver visto un film di science fiction vietnamita: lo metterò nel curriculum.

Ecco la locandina



berlinale / giorno uno (scaldiamo i motori e regaliamo i pizzoccheri)

E' la prima volta che arrivo a Berlino per il festival con il sole (le altre volte rispettivamente: neve, vento, neve). E' anche la prima volta che in un modo che devo ancora capire ottengo un passaggio gratuito da una macchina del festival fino a Postdammer Platz. Sull'auto incontro un direttore della fotografia brasiliano che ha un lungometraggio in concorso nella sezione panorama (O homem das multidoes - the man of the crowd, di marcelo gomes) e un'età indefinita tra i 23 e i 45. Mi lascia un sito internet che devo ancora vedere ma con online tutti i lavori della sua piccola società (che ha insieme ad altri 7): www.alumbramento.com.br (lo guarderò prima o poi).
Definisce tutti quei video "emerghenzia movies", perchè realizzati in condizioni un po' precarie ( a livello finanzario).

Una volta ritirato l'accredito e la borsetta (posso scegliere tra bianco con logo rosso e bianco con logo fucsia (indovinate cosa scelgo), provo svogliatamente a prenotare un qualsiasi biglietto per domani, ben sapendo che sono già le 12.00 e che probabilmente dovrò tornare in appartamento a mani vuote. E invece le sorprese non mancano stavolta e riesco a recuperare un biglietto per la proiezione di The great Budapest Hotel alle 19.00 (il che ha del miracoloso visto che nel cast del film di wes anderson figurano: ralph fiennes, owen wilson, adrian brody, williem dafoe -che ho scoperto essere bassissimo,  tilda swinton -che ho scoperto essere altissima, specialmente vicino a defoe-, jude law, edward norton, jason schwartzmann, bill murray e compagnia bella. Come dice uno con accento spagnolo guardando il manifesto del film "manca solo Gesù") e uno per Ugetsu monogatari di Kenji Mizoguchi (è del 1953 e la proiezione è alle 22.00 per cui in effetti forse questa non era una proiezione ambitissima, e anche io non sono poi sicuro che ci andrò visto che l'ho già visto...vedremo!).


Oggi alle 17.30 proverò a entrare in una proiezione che teoricamente è solo per la stampa (e non so di che film, so solo che è nella sezione forum e che ci va un mio amico che è in giuria Cicae) ma sono quasi certo che fallirò. 
Ora sono in camera aspettando che arrivi il mio solito compagno di avventura Jon Barrenechea perché c'ho un regalo da dargli (lo stesso, tutte le volte che ci vediamo, ma non stanca mai) qui in mezzo a tutto l'occorrente per il festival: scoprite l'intruso.