domenica 12 febbraio 2012

berlinale / giorno tre

eccoci a cesare deve morire, dei fratelli taviani. sul palco del teatro all'interno del carcere romano di massima sicurezza di rebibbia si consuma l'ultimo atto del “giulio cesare” di shakespeare. poi le porte del carcere si richiudono, i detenuti-attori rientrano nelle loro celle.
flashback, sei mesi prima: il casting e le prove hanno inizio, mentre si va assottigliando sempre piú la linea che separa realtà e finzione. l'aderenza dei carcerati (alcuni bravissimi altri così così) ai personaggi avveniene con naturalezza (e potenza), alcune battute stimolano ricordi dolorosi, altre sono particolarmente sentite. mymovies dice "non era necessario. Shakespeare aveva già splendidamente ottenuto il risultato." a chi è con me il film piace molto, a me piace ma non convince del tutto. la vita dei detenuti non è messa a fuoco se non per qualche lampo di ricordo personale che però viene inevitalmente corrotto dalla presenza della macchina da presa e dal contrastato bianco e nero della fotografia: il rischio è che anche questi momenti di toccante sincerità (in teoria) si trasformino in scene (troppo) costruite.


okraina di boris barnet, stesso regista del bellissimo the girl with the hatbox di ieri, è troppo politicamente ridondante e il personaggi sono troppi. l'audio della pur dignitosa copia restaurata va a intermittenza, così abbandoniamo la proiezione prima della fine.

sezione panorama, fon tok kuen fah (headshot), film thailandese di Pen-Ek Ratanaruang, è un noir piuttosto particolare, che alterna momenti di violenza, pause riflessive (generalmente sulla naturale ingiustizia dell'umanità) e visioni al contrario, nel senso che il protagonista, ex poliziotto-poi carcerato(ingiustamente)-poi killer-poi monaco, dopo un colpo di pistola in testa si sveglia vedendo la realtà sottosopra, nel senso letterale del termine. è un p0' troppo "troppo" tutta la storia e va a sfaldarsi piano piano, anche se regia, fotografia e montaggio sono più che dignitosi.

venerdì 10 febbraio 2012

berlinale / giorno due

intrufolamento di successo.
entro a vedere solotoje osero (the golden lake), film del 1935 di un regista che non ho mai nemmeno sentito nominare (né saprei ripronunciare): Wladimir Schnejderow.

l'introduzione al film viene fatta da uno dei due curatori della retrospettiva, ed è ricca di aneddoti. Wladimir Schnejderow è una sorta di werner herzog ante litteram. è un regista perlopiù di documentari (the golden lake è il suo primo film di finzione) un po' folli: ha realizzato il primo film mai girato in sud arabia, idem nello yemen, ha girato un documentario sul primo volo della tratta mosca-tokyo (considerato talmente pericoloso che nessuno voleva essere ingaggiato nella troupe - ha dovuto lavorare da solo) e uno nel polo sud, dove ha rischiato di annegare.

solotoje osero è tutto sommato un film anche trascurabile. molto retorico, pomposo, ridondante (più volte gli stessi spezzoni vengono utilizzati-riutilizzati-ririutilizzati in momento diversi). le scene con gli attori sono talvolta girate in modo grossolano, con errori di ripresa e una recitazione quasi grottesca. quando l'eroe buono, dopo aver legato i cattivi a dei tronchi di betulla da lui precedentemente spezzati con una piccola ascia, trova anche le pepite d'oro (ovvero ciò che ha scatenato tutto il pandemonio cui il film ruota attorno) i tre cattivi gli dicono "ce l'hai fatta, ora sei anche ricco", lui prontamente ribatte fiero (gonfiando visibilmente il petto come si vede fare solo nei galli in pollaio - e notando che nel primo piano semba anche più pettinato che nel campo lungo) "questo oro non farà ricco me, ma il mio paese". lato strano invece è che la bella di turno, mariska, sia sempre lasciata da sola a saltare dai tronchi, a nuotare nelle rapide, a slegarsi dai lacci, a lottare con i cattivi, però quando alla fine sta per scendere da una comoda canoa, l'eroe protagonista non vuole che si bagni i piedi, la prende in braccio e la guarda mentre il sole splende alto nel cielo. (menzione d'onore va alle scene in cui infuria l'incendio nella foresta attorno al lago -per la cronaca era stata incendiata da uno sciamano colto da improvvise visioni-, la sensazione qui è -e presumibilmente è vera- che abbiano davvero incendiato parte di una foresta per fare quelle scene...). merita praticamente solo per i paesaggi in cui è ambientato (la fotografia è a tratti molto suggestiva).


Dewuschka s korobkoi (the girl with the hat box) di boris barnet è invece una commedia (muta) semplicemente stupenda, divertente, e incredibilmente moderna (ho esagerato? fa un certo effetto la sala esaurita e le risate che scoppiano fragorose in un film poco conosciuto, pur di un grande regista, in una retrospettiva): come concordiamo tutti -di 5 nazioni diverse - "the artist è già molto più datato di questo film". calcolando che il film di barnet è del 1927, la visione di questo piccolo capolavoro (nato su commissione per promuovere la vendita dei biglietti della lotteria statale) -specialmente in copia restaurata e accompagnata dal perfetto commento musicale live di gabriel thibaudeau al pianoforte- ha qualcosa di magico. tutto è perfetto: regia, (splendida) fotografia, scrittura, fino alle performance di tutti gli attori ( da scoprire o riscoprire Anna Sten e Wladimir Fogel, morto a 27 anni, incredibilmente espressivo e comico -nel senso alto del termine-, sopra tutti. ma anche l'ultima delle comparse sembra far esplodere il proprio talento).


insomma c'è piaciuto. ci ripromettiamo di vedere altri film di barnet, ma domani puntiamo a una giornata di visioni più "contemporanee", in senso ovviamente solo cronologico: come mi dice gabriel thibaudeau mentre mi complimento con lui per l'accompagnamento "i film belli come questo non hanno tempo." ovvietà forse, ma a volte fa bene ricordarselo.

giovedì 9 febbraio 2012

berlinale / giorno uno (anzi mezzo)


va bene, freddo fa freddo. tutte le proiezioni erano al completo, senza posti per il pubblico con il mio accredito -che ho già capito essere l'ultimo della lista-.
quindi niente film d'apertura e niente chess fever di Pudovkin (tutto esaurito, anche per la retrospettiva). quindi ho poco da dire sui film.
approdo a berlino alle 11.00 insieme a Darryl, un nostro amico che arriva direttamente dai 30 gradi di johannesburg (qui meno 14), dove possiede e gestisce il più "vecchio" cinema d'essai. il più vecchio cinema d'essai di johannesburg ha 5 anni. ogni abitante di johannesburg quando deve decidere quale film andare a vedere ha una scelta di circa 4/5 film.
Darryl avrà 35anni, ha vissuto in taiwan, poi in canada ("nella parte che sembra il texas del canada"), poi è tornato in sudafrica, dove è nato.
poi arriva Boris che invece gestisce un cinema a Amiens. tutte le volte che mi vede incomincia a parlare di Kaurismaki. questa volta non fa eccezione. mi racconta di essere stato a Le Havre, alla prima del film, con tutto il cast. ha provato a parlare con Kaurismaki ma era impresa ardua: è stato ubriaco - Kaurismaki, non Boris - dal primo pomeriggio fino a notte inoltrata. ha giusto fatto in tempo a obbligare il suo distributore a dare il film anche al piccolo cinema in paese, non solo al grande cinema gaumont.
il piccolo cinema in paese ha incassato, per una volta, più soldi del grande gaumont. la gente ha preferito vederlo lì.

torniamo al festival, dove ho poi anche capito che è difficile riuscire a prendere i biglietti in tempo. ho avuto successo solo con una commedia della retrospettiva: deuschka s korobkoi (the girl with the hat box) di Boris Barnet, del 1927. lo vedo domani alle 19.00. spero poi di riuscire a intrufolarmi in qualche altra proiezione e a essere più reattivo nell'acquisto dei biglietti.

venerdì 3 febbraio 2012

berlinale2012 | prima della partenza

eccoci. tra cinque giorni approderò a berlino, destinazione festival del cinema.
fortuna vuole che in quei giorni sia prevista una certa “brezza”, dalla siberia.
c'è chi si è comprato tre paia di calze termiche e ha intenzione di mettersele tutte contemporaneamente, c'è chi ha comprato un thermos (per il caffè caldo), c'è chi ha comprato tre paia di calze termiche anche per il thermos.
starò lì cinque giorni (9-14) e per ora so solo poche cose del festival di quest’anno.

so che conto di vedere tre film al giorno.
so che il film d’apertura del festival sarà les adieux a la reine (di cui so soltanto che ricostruisce le ultime 48 ore di vita di maria antonietta) di benoît jacquot (di cui non ho mai visto un film e so solo che era l’aiuto regista di marguerite duras). so anche che non ci tengo troppo a vederlo.
so che mike leigh (regista di happy go lucky e another year, già al cineforum) è il presidente di una giuria con nomi importanti, tra cui asghar farhadi, regista di una separazione (a rho martedì 6 mercoledì 7 giovedì 8 marzo | ore 21.00, orso d’oro la scorsa edizione e oggi in gara per l’oscar al miglior film straniero), charlotte gainsbourg e françois ozon (regista di potiche, la bella statuina, già al cineforum).
so che l’unico film italiano in concorso (almeno credo) è cesare deve morire dei fratelli taviani, girato in carcere con i detenuti nella sezione di massima sicurezza di rebibbia.
so che ho solo un film che voglio assolutamente vedere, ed è death row di werner herzog. so anche che dura 188 min, e il thermos di caffè potrebbe venire utile.
e poi so della retrospettiva, cioè so che vorrei vederne parecchi film, anche se poi forse è più utile che io veda film più, diciamo, contemporanei.
quest'anno la retrospettiva è dedicata a una storica casa di produzione russo-tedesca, la Mezhrabpom-Film, soprannominata “fabbrica del sogno rosso”, frutto dell’incontro tra il comunista tedesco willi münzenberg e il produttore russo moisei aleinikov e istituita a mosca nel 1922, con una sede anche a Belino. è un esperimento oltre i confini nazionali che tra il 1922 e il 1936 ha prodotto attorno ai 600 film: quella che (dicono) è la prima pellicola di fantascienza, il primo film d’animazione sovietico, il primo film sonoro e il primo a colori (sempre sovietici). ora, probabilmente nessuno di questi film merita davvero l’aggettivo di “primo”, e il cinema d’animazione russo era già in stadio avanzato, nel 1922 (vale la pena ricordare, o scoprire, visto che molti suoi lavori si possono anche vedere su youtube, ladislas starevich – più esoticamente ‪"wladyslaw starewicz" ), ma resta il fatto che la Mezhrabpom-Film ha prodotto molti classici del cinema (più o meno politico), da la fine di san pietroburgo e tempeste sull’asia di vsevolod illarionovič pudovkin (esoticamente wsewolod pudowkin), la ragazza con la cappelliera (1927) di boris vasilyevich barnet (esoticissimamente Борис Васильевич Барнет) -ex boxeur professionista e grande regista di commedie- fino all’eccentrica pellicola di fantascienza aelita di jakov aleksandrovič protazanov (Яков Александрович Протазанов), che racconta di una rivoluzione su marte, il pianeta rosso per eccellenza: insomma, come è chiaro, la “fabbrica del sogno rosso” traeva ispirazione dalla rivoluzione russa in generale e dalle avanguardie artistiche sovietiche in particolare, e a hitler non sarebbe andata a genio, e infatti, una volta al potere, la chiuse e le fece riaprire, filo-regime, sotto l’altisonante nome di Prometheus. tre anni dopo anche stalin fece cambiare nome a quella parte di Mezhrabpom-film rimasta a mosca, che diventò quindi Soyuzdetfilm e iniziò a produrre film per bambini.

ecco: vedere un bel film di quell'epoca mentre fuori soffia la brezza siberiana mi sembra un buon programma. vedremo cosa riuscirò a fare e cercherò di tenervi aggiornati.
se vedete nel programma qualcosa di interessante e volete mandarmi in avanscoperta, scrivete pure nei commenti e se riesco lo incastro nella giornata e poi vi dico.
a presto.




mercoledì 26 ottobre 2011

sicuramente a rho li vedrete, forse

ecco alcune anticipazioni di pellicole che saranno sicuramente inseriti, a meno di impedimenti indipendenti dalla nostra volontà, nella prossima edizione di CIN&CITTA':

MIRACOLO A LE HAVRE di aki kaurismaki 
SCIALLA! STAI SERENO di francesco bruni

LA KRYPTONITE NELLA BORSA di ivan cotroneo
LE IDI DI MARZO di george clooney
MIDNIGHT IN PARIS di woody allen
EMOTIVI ANONIMI di jean-pierre ameris
UNA SEPARAZIONE di asghar faradi
DRIVE di nicolas winding refn
FAUST di alexander sokurov
ALMANYA - BENVENUTI IN GERMANIA di  yasemin samdereli
THE ARTIST di michel hazanavicius
J. EDGARD di clint eastwood
ROMANZO DI UNA STRAGE di marco tullio giordana
MAGNIFICA PRESENZA di ferzan ozpetek
THE IRON LADY di phyllida lloyd
LA SORGENTE DELL'AMORE di radu mihaileanu
LA CHIAVE DI SARA di gillet paquet-brenner
 
per oggi può bastare, poi ci sono dei forse e dei probabili
MARIGOLD HOTEL di john maddenCOSA PIOVE DAL CIELO di sebastian borensztein
HYSTERIA di tanya wexler


martedì 18 ottobre 2011

questa settimana a Rho: Danis Tanovic e Cirkus Columbia

La guerra nella ex Yugoslavia continua a rappresentare una sorta di tabù cinematografico.

Più che raccontarla in modo diretto, se ne rappresenta il pre o il post, le si dà una forma come documentario o docu-fiction, la si mette al centro di una pellicola irreale, una sarabanda metaforica come Underground di Kusturica, o un film tragi-comico come No Man's Land, con cui lo stesso Tanovic esordì, si fece conoscere al mondo e vinse l'Oscar per il miglior film straniero. E Tanovic ha continuato a girarci intorno, alla guerra, la 'sua' guerra, che ha vissuto per i primi due anni, come cine-reporter al seguito dell'esercito serbo-bosniaco.

Dopo il primo film, ha diretto uno degli episodi di 11.'09."01, 11 settembre 2001, ed è tornato a occuparsi della guerra mettendone in scena le conseguenze (del conflitto turco-kurdo, n questo caso) in Triage, diretto dopo la parentesi non molto fortunata di L'enfer (un film basato su una sceneggiatura di Kieslowski). Cirkus Columbia rappresenta un ritorno a casa e un ritorno al ricordo dei momenti che precedettero l'esplosione del conflitto nella ex Yugoslavia. Anche in questo caso Tanovic preferisce mantenersi su un livello non realistico, sfoderando un senso di leggero umorismo che pervade il film.

Tutta questa leggerezza, però, l'andamento e i personaggi che sanno un po' di favola, finiscono per far sorgere un dubbio, che diviene quasi la sigla del film nel finale.
Che significato ha il paradosso? Di che cosa sa? Come può coesistere infatti la commedia sentimentale, la piccola vicenda privata che coinvolge due donne, tre uomini e un gatto, sullo sfondo di un remoto e ameno villaggetto, con la nozione sempre più presente di un tragico conflitto che sta per esplodere? E' davvero sereno il cielo nel quale si stanno per levare i fumi delle bombe? Cos'è allora, il film di Tanovic? Una grottesca presa in giro dei suoi futili personaggi? Una non troppo velata allusione alla miopia con cui le persone attente solo al proprio tornaconto producono un destino fatale per tutti? O un omaggio affettuoso a ciò che è stato perduto, ai tempi della convivenza fra le diverse etnie nello stesso Stato, unito al ricordo, che è anche un monito, dell'inconsapevolezza con cui quasi tutti, a quei tempi, si dirigevano verso il disastro più totale? E che cosa prevale, in quel finale? L'amore o la morte?
A voi la sentenza!

dagli Incontri del cinema d'essai - Mantova 11-13 ottobre

con Paola siamo andate a vedere che cosa gli incontri della Fice proponessero quest'anno in anteprima: il programma era molto ricco, impossibile seguirlo tutto. Abbiamo visto qualcosa di sicuramente buono, che credo finirà nel calendario del cineforum, ma anche una quantità di brutture al limite dell'inguardabile.
Cominciamo da un film così così:

La prima mattinata si apre con Moneyball, o L'arte di vincere, diretto da Bennet Miller e basato sull'omonimo best-seller di Michael Lewis. Mi chiedo come si possa pensare che un film simile funzioni in Italia. Certo, Clint Eastwood è riuscito, nel 2009, ad andar bene al botteghino con un film sul rugby. Ma era Clint Eastwood, aveva Matt Damon e Morgan Freeman, ed era anche un film sui momenti gioiosi e gloriosi della fine dell'apartheid. Bruttino, comunque. Ma Bennet Miller? Chi si ricorda che Miller ha già diretto un peraltro discreto film, Capote? Quasi nessuno, credo. Chi andrà a vedere un suo film sul baseball? Basterà il fatto che il protagonista sia interpretato da Brad Pitt? Temo di no. E non me ne dispiaccio. Il film è il solito polpettone denso di emozioni giocate sui temi consueti, il denaro, la sconfitta, la vittoria, l'autostima, e ancora la sconfitta, la perseveranza, la vittoria morale. Ma la prevedibilità della trama spicca in modo quasi grottesco quando si assiste, una dopo l'altra, a una serie di partite di un gioco così estraneo alla nostra cultura.

Poco dopo, ci spostiamo di sala per vedere Killer Joe, di William Friedkin, noto soprattutto per il suo storico horror, L'esorcista. A parte che la videoproiezione è bruttina a causa di luci-colori tarati male, la mano si nota, la regia è ottima, il film tiene ma... sarebbe stato meglio non voler scopiazzare Tarantino e Rodriguez, non voler fare uno splatter divertente e caustico senza saperlo fare fino in fondo. Perché alla fine manca qualcosa, che invece nei loro film c'è sempre: forse il senso, dato di solito dal sapore di una fin troppo giusta - anche perché estremamente fasulla - vendetta, forse la risata adrenalinicamente sfrenata che spesso ci sanno regalare, loro, i due veri e unici resuscitatori del grindhouse, exploitation o b-movie che dir si voglia.

Terza visione: dieci minuti di Quando la notte, di Cristina Comencini, dal suo omonimo romanzo ... sospendo il giudizio, perché dieci minuti son davvero troppo pochi ma ho avuto un'impressione così così, attori mal diretti, personaggi poco credibili, dialoghi che san di scritto più che di parlato e montaggio aritmico.

Finalmente arriva qualcosa di buono con Una separazione, diretto da Asghar Farhadi, già noto in Italia per About Elly (2009). Si riconfermano alcune qualità che sembrano tipiche di un certo cinema orientale o meglio mediorentale: la capacità di consegnare alle immagini uno sguardo esistenziale estremamente disincantato, ironico ma quasi mai cinico. Ed è questo che distingue, credo, questo Woody Allen iraniano dal vero Woody Allen o dal suo recente emulo Polanski (v. Carnage), nella comune rappresentazione delle parole come armi, come olio che unge le ruote dei conflitti. L'arguto pessimismo di Farhadi non scivola mai nella caricatura e non dimentica che chi vuole può sempre tentare di resistere. Ci sono film in cui anche parlando poco si dice già troppo. Qui si parla molto ma si dice il giusto, conducendo a poco a poco lo spettatore dentro l'evolversi di un teso intreccio di rapporti umani, spesso prevedibili, ripetitivi, guidati da paure e debolezze, ma anche inevitabilmente aperti al futuro e autentici nell'assenza di ogni moralismo.

Segue un altro film in cui il tema centrale è la 'separazione': è Il sentiero, diretto da Jasmila Zbanic. Inizia come una commedia, la vita semi-spensierata di una giovane coppia bosniaca dei nostri giorni, e procede con una tensione crescente che riporta i protagonisti da un lato verso il loro recente passato traumatico, di guerra e di morte, dall'altro verso due modi sempre più opposti di reagire e di intendere il futuro, uno del tutto integrato nella cultura europea d'occidente, l'altro in cerca di rinnovamento e sicurezza attraverso l'adesione a una comunità islamica integralista. In sottofondo, il problema dell'inseminazione artificiale. Sarebbe stata una bella storia, e a tratti riesce a far intravedere la Bosnia di oggi, la situazione complessa e difficile che attraversa. Purtroppo la regia è retorica, un eccesso di sorrisi e salamelecchi cede rapidamente a grugni duri e scontri frontali, i personaggi di contorno sono delle macchiette a volte imbarazzanti e si finisce per sperare in qualche momento di vera tragedia che blocchi la noia incipiente.

Almanya è uno dei film migliori dell'intera iniziativa. Diretto da Yasemin Sandereli, una regista tedesco-turca, ricorda per un pezzetto Baaria, per un altro Little miss Sunshine: le risate sono assicurate, ma non impediscono al film di avere una sua serietà, occhi divertiti ma anche ben aperti sulla storia. La vicenda centrale riguarda l'immigrazione turca in Germania, e mette in scena le contraddizioni e le reciproche incomprensioni dei due popoli, secondo luoghi tipici di un genere ormai ben rappresentato da film vecchi e nuovi, da East is East a Jalla-Jalla e molti altri. Anche Almanya tratta in particolare il tema dell'integrazione scegliendo un tono leggero, a volte spassoso, con quel misto di ironia e autoironia che solo le 'seconde generazioni', con il loro duplice bagaglio culturale, possono sfoderare così bene.

Shame: o del sesso come non l'avete mai visto, ma come forse non vorreste mai vederlo. E' questo il problema fondamentale del film. Ben diretto e ben interpretato, buono sotto tutti i punti di vista tecnici (salvo qualche riserva sulla sceneggiatura) e dotato di un suo stile visivo appropriato alle emozioni che vuole trasmettere, mette in scena la vicenda di un ninfomane e di sua sorella, una maniaca suicida, ma non riesce a coinvolgere lo spettatore. La reazione scandalizzata delle 'sciure' all'inizio mi ha indispettito, perché guardavano solo ai contenuti e non a come erano rappresentati. Ma alla fine non ho potuto dar loro torto fino in fondo. C'è qualcosa di buono e di nuovo nel modo di raccontare il sesso come ossessione solitaria, vissuta conflittualmente pur negli agi e nell'apparente libertà di costumi della grande mela, ma anche qualcosa di gratuito e di noioso, qualche scena di troppo, qualche prevedibilità in eccesso, che impedisce all'andazzo plumbeo e soffocante della storia di trasformarsi in un bel film. Diretto da Steve McQueen, con Michael Fassbender e Carey Mulligan, belli, bravi e imbruttiti.

Il resto alla prossima puntata!