martedì 11 febbraio 2014

berlinale / giorno sei: in ordine di scomparsa

In order of disappearance,  succosa black comedy scandinava in competizione, a tratti esilarante, ben scritta, diretta e ottimamente recitata. Questa insolita storia di vendetta incrociata tra un vecchio padre cui hanno ucciso il figlio, gli assassini in questione e una banda rivale serba che in teoria non c'entra niente (capitanata da un Bruno Ganz in gran spolvero) non vincerà mai l'orso è perché fin troppo "commerciale", ma merita decisamente una visione:  una trama alla fratelli Coen diretta da uno scandinavo con trovate di sceneggiatura alla Tarantino.  L'inizio, cupo e serio, è molto sbilanciato rispetto al progressivo disfarsi verso il delirio comico. Ma forse il titolo originale, così a intuito, sembra dare una pista più chiara sul tono del tutto: Kraftidioten (perfetto e molto bello e calzante il titolo in inglese: ogni volta che muore un personaggio nel film -e sono parecchi a morire- appare un cartellone nero con il suo nome come a compilare una lista "in ordine di scomparsa"). 


Aimer, boire et chanter è la nuova commedia (in competizione) del mitico Alain Resnais, arzillo novantaduenne che ancora una volta utilizza il teatro come filtro per il suo cinema (e ancora una volta -dopo smoking/no smoking e Cuori, il bel testo è di Alan Ayckbourn - Life of Riley è anche il titolo inglese del film):  messa in scena impeccabile, ottima fotografia e scenografia e un cast d'attori bravissimi. Teatro filmato, sì, molto, ma di gran classe: il TRAILER spiega meglio di molte parole in che senso. L'ex nouvelle vague Resnais usa disegni e musiche da burlesque per giocare con il mezzo cinematografico e non prendersi troppo sul serio.


The galapagos affair: when Satan came to Edenon capiamo bene in che sezione sia ma il tema sembra interessante e il TRAILER ci incuriosisce molto. In effetti è una storia pazzesca, una di quelle che se fosse finzione diremmo "seee, e poi?". E' la storia di un lui (filosofo seguace di Nietzsche) e una lei entrambi sposati con altri che decidono di mollare tutto e di andare a vivere nella più disabitata delle isole delle Galapagos (siamo a inizio Novecento). Lì la convivenza fra di loro e -soprattutto con le altre due nuove coppie che arrivano- piano piano inizia a mostrare momenti di tensione. Una falsa contessa arriva con il suo nuovo compagno e il suo ex marito e poi scompare nel nulla con il suo fidanzato mentre l'ex marito scappa subito dopo per morire nel tragitto. Le vicende (alcune misteriose e senza soluzione) di questi tre nuclei  si intrecciano a quelle di chi vive oggi alle Galapagos e ha mollato la civiltà. incontri alla fine del mondo ben montati e con un'enorme quantità di materiale d'archivio estremamente interessante: molto Herzoghiano nella storia ma purtroppo non nella forma, è comunque un documentario che coinvolge e tiene viva l'attenzione dello spettatore per le due ore della sua durata.



lunedì 10 febbraio 2014

berlinale / giorno cinque: die andere heimat

Dopo poche ore di sonno mi ritrovo in qualche modo al palazzo della berlinale a vedere un film cinese in concorso che inizia alle 9. La sala è mezza vuota e c'è una buona percentuale di stampa cinese.Il fim si chiama Tui Na ed è di Lou Ye.
Di tanto in tanto cinesi di fianco a me ridono per alcuni scambi che a me non sembrano per niente divertenti e allora mi parte la solita triste impotente considerazione: non potremo mai capire I film di lingue a noi totalmente sconosciute anche se sottotitolate in un'altra lingua: un tono, una pronuncia, una sfumatura culturale e in un attimo un dialogo serio ecco che diventa comico (o viceversa). Ovviamente il doppiaggio non è la soluzione,  anzi. Ma mi sale una certa rassegnazione all'incomprensione. Scaccio il pensiero e mi immergo in un film che alterna momenti estremamente poetici a fulminanti accelerazioni di violenza, riuscendo a raccontare e affrescare le storie d'amore,  le sensibilità,  le domande (esiste la bellezza? )e le solitudini di un gruppo di ciechi che lavorano in un centro massaggi gestito interamente da loro (il titolo è tradotto con "blind massage"). Da segnalare le emozionanti musiche di Johansson, le scene di pioggia a scandire il passaggio del tempo e le solitudini,  la recitazione degli attori (quasi tutti ciechi) e alcuni momenti di alta regia. Forse qualche momento drammatico di troppo e qualche utilizzo del fuori fuoco non troppo necessario. 

E' una splendida giornata di sole. Il cielo azzurrissimo non ammette nemmeno una nuvola al suo cospetto e la gente si riversa nelle strade e nei parchi, specchiandosi nei palazzoni nuovi e nelle lenti da sole di altri passanti. Sono le 12.45 e io saluto questo sole per entrare in una sala minore dello zoo palast. Da bravo nerd disadattato arrivo con un'ora e venti minuti d'anticipo e non solo non c'è nessuno in fila ma non c'è nemmeno la fila e nemmeno lo staff della biennale (quando arrivando mi vedono in piedi a immaginarmi una fila mi trattano come un povero ritardato). E' l'unico film barrato nel mio programma come "imperdibile", anche perché l'ho già perso una volta a Venezia lo scorso settembre.


Del resto Die andere Heimat è uno di quei film che uno aspetta da tanto e che nel 90% dei casi poi vede (se va bene) sul computer o (se va benissimo) compra in dvd per menarsela con gli amici che vedranno il cofanetto nel salotto (in questo caso non è necessario vederlo, pare). Il film è presentato in una sezione a parte (chiamata "sguardo sul cinema tedesco") e in realtà è già uscito al cinema qui e in altri paesi europei (in Francia è stato proiettato 120 volte, mi dice con la solita punta d'orgoglio nouvelle vague il mio amico Boris, di Amiens). 
È un film di 4 ore (senza pausa), ed è il quarto della storica serie Heimat, diretta da Edgar Reitz: non si tratta del quarto capitolo in senso cronologico perché è in realtà una sorta di prequel ambientato nell'Ottocento, prima di Heimat 1. Il titolo è from home to home, ma quell'"home" è la traduzione impossibile da riferirsi al tedesco "heimat": casa, patria,  area (fisica, mentale, atemporale) in cui si è cresciuti.
La sala 2 dello Zoo palast è grande ma intima, è tutto rosso che sembra uscito dal set di sussurri e grida di Bergman e faccio anche una foto -sfocata- (con Edgar Reitz sul palco) per farvi capire: sono in un'altra dimensione.
(Se prendete la piantina della sala, tirando le linee dai vari angoli a quelli a loro opposti otterreste una raggiera che si incrocia tutta in un punto centrale: ecco io sono seduto proprio lì.)

Inquadrature di una bellezza rara e momenti indimenticabili (una dei protagonisti che saluta la sua immagine riflessa in uno specchio di casa prima di emigrare in sudamerica / la morte dello zio mentre fila la lana / la fiera di paese / la mamma in mezzo ai campi che respira l'aria buona - e molte altre). E' un film che davvero non può durare meno (e che risucchia completamente nella storia e negli ambienti), ricco di rimandi interni e rime, di poesia e di emozioni, di vita comune e lavoro manuale, con una forza visiva e emotiva rara. E non mancano nemmeno i momenti divertenti e almeno uno (anche grazie a un autoironico cammeo di Werner Herzog) è davvero esilarante.
Ė il capitolo che forse più degli altri andrebbe visto al cinema ed è assolutamente vedibile anche da solo, senza aver visto i precedenti. 
Forse uno dei più bei film che ho visto negli ultimi dieci anni.
amen.
ecco l'immagine della splendida giornata di fuori vista dai vetri del cinema





domenica 9 febbraio 2014

berlinale / giorno quattro: ninfomania, pint eastwood e compagnia bella

Di domenica è più difficile riuscire ad entrare alle proiezioni visto che il pubblico non lavorante è molto numeroso. Facciamo inutilmente un'ora e mezza di fila per cercare di entrare a vedere Calvary (TRAILER) il nuovo film di John Michael McDonagh, regista di The Guard, arrivato timidamente in italia con il fantasioso titolo di Un poliziotto da happy hour (peccato:secondo me era molto bello)
E falliamo anche l'ingresso a un altro film di cui non so nemmeno il titolo.

ne riusciamo però a vedere tre. Sono:
Historia del miedo (history of fear), in competizione. 79 minuti che sembrano tre ore:  storia simbolica sull'isolamento dei ricchi e della loro vita su una facciata di normalità che va piano piano a scricchiolare. Ritmo lentissimo, trama quasi inesistente, non ci sono protagonisti ma solo un affresco di situazioni che si susseguono tenute insieme da una tensione piuttosto fine a se stessa. Forse il film peggiore visto a questa berlinale (il livello è comunque molto migliore rispetto agli anni passati).

Shemtkhveviti paemnebi (blind dates), sezione forum. Ci arrivo già un po' provato (e mi stanco anche solo a provare a pronunciarne il titolo) dopo le due file andate male e alle 22.00, per cui consiglio di leggere la recensione dell'hollywood reporter: QUI. Si tratta di una bella commedia georgiana popolata da uomini inconcludenti e donne con le palle, da genitori invadenti ma irresistibili e paesaggi desolati ma affascinanti (e fotografati benissimo). Il filo conduttore è un humour alla kaurismaki, un po' melanconico un po' cinico, pervaso da un vago senso di solitudine. Merita una visione, ma dubito uscirà mai in Italia.


La mia hit del giorno è a sorpresa (sono banale, lo so) Nymphomaniac vol.I di Lars Von Trier (presentato fuori competizione), a dispetto del TRAILER e del marketing che mi aveva lasciato un po' perplesso.
sito web del film
Al festival vediamo la versione lunga e non quella tagliata (30minuti circa di differenza) che uscirà in Italia (speriamo) e che è già uscita in metà europa. Le scene di sesso estremamente esplicite sono ovviamente funzionali alla storia e non provocatorie, la narrazione procede per capitoli seguendo il racconto della protagonista (una bravissima Gainsbourg). I toni (tranne in un capitolo -il meno riuscito secondo me, intitolato Delirium e girato in bianco e nero) sono quelli della commedia (che non si prende troppo sul serio) e il terzo tassello della cosiddetta "trilogia della depressione" funziona benissimo: le due ore e mezza circa volano dando vita a momenti di grande cinema (la scena con Uma Thurman è una delle migliori di tutta la cinematografia di Von Trier).  Christian Slater manca il bersaglio del suo personaggio (sta per morire in ospedale e non è, non dico dimagrito, ma nemmeno spettinato) e anche Shia LeBeouf perde qualche colpo (tra l'altro mi dicono gli anglofoni che entrambi gli attori ora citati cercano, da americani, di pronunciare le parole in accento inglese e lo fanno davvero male, a quanto pare), ma gli altri sono perfetti e la storia della protagonista è davvero ben scritta e diretta. La ricerca del piacere sessuale (e del suo apparente-contrasto: l'amore) visto come pescaggio-gara prima e come contrappunto musicale poi, è un buco di solitudine che il regista analizza e narra in modo preciso e coinvolgente (c'è tutto Von Trier eh: lo dico per chi ci piace già). Prima dei titoli finali si vede un velocissimo montaggio  di cosa ci aspetta nel volume II (risposta superficiale: ancora più scene di sesso, ancora più estreme) mentre martella la canzone dei Rammstein che pompava i timpani anche all'inizio del film (un inizio, prima della musica intendo -ho un problema con l'heavy metal mi sa-, davvero bello). Per la cronaca: in tanti ipotizziamo che, per come è costruito il film, se ne potrebbe trarre una serie tv, una specie di How i met your mother sulla ninfomania.
Sui titoli di coda, proprio alla fine, si leggono i nomi (d'arte) delle controfigure per le scene di sesso spinto, vale la pena ricordare uno pseudonimo davvero creativo: Pint Eastwood.

ps
domani in teoria mi guarderò solo due film. Però uno dura quattro ore, e ho grosse aspettative.

sabato 8 febbraio 2014

berlinale / giorno tre: is the man who is tall happy? e i demoni del cinema di hong kong

Dopo due film usciti un po' in sordina (Mood indigo- la schiuma dei giorni e -specialmente- The we and the I che invece secondo me era molto bello e avrebbe meritato più attenzione, in Italia ma non solo) Michel Gondry ritorna con un piccolo documentario-intervista a Noam Chomsky realizzato nel corso degli ultimi anni in modo intimo, con pochissimi mezzi di ripresa ma tantissime idee visive e una forma assolutamente nuova: si tratta di un film d'animazione, verrebbe quasi da dire di "illustrazione" a un'intervista.
Gondry come suo solito pesca stimoli negli albori del cinema (per molti versi ricorda il corto Phantasmagorie di Emile Cohl, 1908) per realizzare qualcosa di nuovo, fresco, leggero e allo stesso tempo pieno di significati, raffinato e coinvolgente. Con immagini assolutamente uniche e un'animazione tanto semplice quanto poetica (e con una lunga lavorazione, vedere per credere) Gondry "anima" Chomsky e le sue teorie e idee, ma anche i suoi desideri e i suoi "piaceri", parlando di ispirazione, di linguistica, di aneddoti, di politica e di tanto altro.
E' il mio film preferito finora, ecco il TRAILER e la bella locandina (per dovere di cronaca vi informo che la BBC mi ha intervistato a riguardo, ecco perché ho scritto cose con una parvenza di serietà: mi ero calato nella parte):


Mi capita poi fra le mani un articolo da cui non mi riprenderò: Werner Herzog sta lavorando a un film con, tra gli "attori", Pamela Anderson e Mike Tyson. Cerco di non pensarci.

Dopo un momento di relax con alcuni miei amici che non vedo da tanto tempo, in Alexander Platz mi aspetta, al cinema Kubix -che infatti è molto cubico-, un film che Jon mi obbliga a vedere perché prodotto da Terrence Malick: si tratta di The better angels di A.J. Edwards, che racconta uno stralcio di vita nell'infanzia di Lincoln (sezione Panorama). Una fotografia in bianco e nero ammaliante e una regia che deve molto all'ultimo Malick (sembra quasi ripeterla) ma che non si lascia andare nel troppo che stroppia nemmeno nell'uso delle voci fuori campo. Alcune tematiche pervadono lo schermo seguendo il ritmo delle stagioni: Il rapporto del piccolo Lincoln con la natura, con il ruvido padre, con l'amore profondo per le due figure per lui più importanti (la mamma biologica e quella che lo ama e lo cresce dopo la morte della prima). Qualche momento è un po' troppo solenne e enfatico, mentre la recitazione non è sempre azzeccata (Diane Kruger è bellissima e bravissima ma è completamente fuori parte) con una musica un po' troppo pomposa. Molto Malickiano (?) e allo stesso tempo molto meglio di To the wonder

Per concludere in bellezza andiamo allo Zoo Palast che ha appena riaperto i battenti dopo tanti anni (ed è bellissimo e con poltrone comodissime) a vedere un film di Dante Lam, maestro del cinema d'azione di Hong Kong e "erede" di John Woo. Si tratta di Mo Jing (The demon within) ed è uno di quei casi in cui il TRAILER parla da sé. E' la storia di un poliziotto che salva la vita, donandogli il sangue, a uno dei capi dei criminali e da allora tutti i fantasmi del suo passato (che non sono pochi...) fanno esplodere le sue fragilità psicologiche già evidenti (e quasi sempre connesse al fuoco: suo papà muore bruciato durante una manifestazione contro la polizia e lui stesso, giocando con un fiammifero da bambino, aveva dato fuoco a casa sua uccidendo il nonno e la nonna). La morale del film, ne concludiamo, è: meglio non giocare col fuoco e con i film di hong kong di nuova generazione. La fotografia è scadente, gli effetti speciali tra il grottesco e quel comico involontario che è sempre un piacere vedere, ma del resto si tratta di un film di genere che di più non si può, capace di scene di rara poesia (una vecchia fa cadere un cesto di arance giù per una via e tutti la aiutano) subito dopo un inseguimento sulle impalcature di un palazzo con conseguente esplosione di due macchine, di una pompa di benzina, di due negozi, di uno specchio con visioni demoniache e così via, a catena, fino a quando non bruciano vivi anche due uomini. Certo lo schermo che si tinge di rosso ogni volta che parte il delirio del protagonista non era del tutto richiesto, ma tutto sommato ci lascia diverse perle su cui giocarci le gag della serata.


E Herzog forse in questo momento sta dando il ciak a Pamela Anderson e Mike Tyson. 







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venerdì 7 febbraio 2014

berlinale / giorno due: al Grand Budapest Hotel e dintorni

Ci alziamo alle 6.40 per recuperare qualche ambìto biglietto almeno per sabato. Ma appena arriviamo intravediamo una fila spuntare quasi due isolati prima dell'ingresso e decidiamo di andare direttamente nella fila dei reietti (ovvero "altri pass") per sperare di entrare a vedere Jack , film in concorso il cui protagonista è un bambino (nonché figlio della migliore amica della nostra vicina di fila, per dovere di cronaca). E' un film che prende lo spettatore soprattutto per i personaggi e la bravura dei due piccoli protagonisti, nonostante la ripetitività di qualche musica di troppo e di qualche espediente narrativo un po' tirato per le lunghe (per un quarto del film i due protagonisti cercano la mamma e continuano a seguire piste sbagliate e congetture un po' campate per aria): è una storia molto simile ai 400 colpi di Truffaut e allo stesso tempo a Il piccolo fuggitivo di Ray Ashley, Ruth Orkin, Morris Engel. Nel pomeriggio vediamo il piccolo attore a passeggio con la nonna e decidiamo che meriterà il premio come migliore attore. E' un film molto carino comunque, anche se già visto.

Il tempo di uno snack e rientriamo in sala per un bizzarro remake di un film francese (molto bello) Deux hommes dans la ville del 1973 (di un regista dagli alti molto alti e i bassi molto bassi: José Giovanni. tra gli alti segnalo Ultimo domicilio conosciuto): al posto di Alain Delon c'è il bravissimo (ma bizzarro qui) Forest Whitaker (e al suo fianco un vecchissimo Harvey Keitel a interpretare un altro "cattivo tenente"). E' un film (anche questo in concorso) insolito che a me piacicchia ma non ai miei compagni: gli attori recitano distaccati dai personaggi e sul poliziesco della trama originale si innesta una dilatazione spaziale e temporale che più western di così si muore. Una sorta di History of violence asciutta, lenta e per certi versi non incisiva. Sintetizzando è la storia di un uomo che esce di prigione e si trova schiacciato tra un poliziotto che non l'ha perdonato e la malavita che lo rivuole. Trascurabile.

intervallo: nel pomeriggio facciamo un giro al museo del cinema. Se capitate qui andateci, è sempre molto bello e, per gli appassionati di selfie, se ne fanno alcune che prendono un sacco di like su facebook (testato garantito).

Prima di parlare del Grand Budapest Hotel su cui tutti mi stressano dall'Italia (anche gente che non conosco e mi chiama sbagliando numero) parlo del film che ho visto subito dopo: The Dog, documentario nella sezione Panorama Dokumente sul personaggio che ha ispirato il film di Sidney Lumet Quel pomeriggio di un giorno da cani (1975). Già dal TRAILER si capisce bene di che tipo di documentario si tratta (personaggio molto eccentrico che si racconta in prima persona -molto spazio è giustamente dedicato all'organizzazione della rapina alla banca decisa per pagare l'operazione del fidanzato del momento che si vuole fare donna-  ma anche attraverso interviste a amici, parenti ex fidanzate e fidanzati e molto materiale d'archivio ben orchestrato e diretto). Nella seconda parte la miscela è un po' annacquata e il film si perde in lungaggini non necessarie.

Allora, tocca finalmente a 
è un bel film che passa in un baleno: ritmo serratissimo (più dei precedenti), attori e attoroni e attricissime in parti importanti e in cammei fulminanti, musica di Desplat alla wes anderson, cura maniacale per le scenografie e i dettagli (sembra tutto fatto a mano, come al solito) e riprese alla wes anderson che tendono all'animazione, alla grafica e talvolta alla videoarte, riuscendo a coniugare citazioni più o meno colte del cinema (karel zeman, kubrick o le trou di becker per dirne alcune) con gag al limite del demenziale (gatti lanciati dalla finestra e trovati spiaccicati per terra a pochi centimetri da qualcuno) senza soluzione di continuità. E' un tripudio di colori, montaggio, musiche, tecnica cinematografica (sempre  alla wes anderson, anche se ha rinunciato agli slow motion fabbrica della casa, questa volta), attori bravissimi, trovate visive, gag.... con persino lo schermo che diventa in 4:3 nel racconto dentro al racconto (narrativamente è organizzato a scatole cinesi). 
E' tutta una grande favola che gira attorno ai gestori dell'Hotel del titolo e all'Hotel stesso, e quindi non esiste limite all'immaginazione e all'inverosimiglianza e assurdità di molti snodi narrativi. Anzi forse un limite ce l'ha: è la continua voce narrante (è un film parlatissimo con la voce narrante che racconta di un racconto in cui appare poi una seconda voce narrante). 
In sala c'è tantissima gente ed è bello sentire le risate ai film di wes anderson: c'è sempre gente che ride nei momenti più improbabili in totale asincronia con i vicini.
Alla fine tutti applaudono e si godono la musica dei titoli di coda fino al nero dello schermo e le luci che si accendono. Non me ne vogliano i sempre più numerosi tifosissimi di Anderson, ma se c'è qualcosa di negativo da dire su film (e forse non c'è) è proprio questo essere a tutti i costi  alla wes anderson. Un esempio pratico: il film inizia su un'inquadratura alla wes anderson: il pubblico ride. Non che l'inquadratura faccia ridere di per sé, ma si ride perché si riconosce che è davvero alla wes anderson: è quasi un'autoparodia compiaciuta. Non che sia una cosa per forza negativa eh (anzi ora che la scrivo tutto sommato mi sembra anche una cosa divertente e intelligente), ma alla fine forse un po' rischierà di stancare come giochino. Di certo non a questo giro.
ps la mia menzione d'onore va a un'inquadratura in cui una lunghissima scala di metallo, scorrendo velocissima (ovviamente perfettamente simmetrica al centro dello schermo), si trasforma idealmente in una pellicola cinematografica che passa davanti all'occhio dello spettatore.





ecco una foto delle crape dall'alto del Berlinale palast - proiezione del mattino di Jack (ero alla prima fila della balconata)













giovedì 6 febbraio 2014

berlinale / giorno uno postilla (un film assurdo)

Insomma entriamo dopo varie peripezie a una delle proiezioni serali (non c'è molta scelta stasera, solo due), è un film della sezione panorama. E stiamo un'ora in fila anche se lo sappiamo che stiamo per vedere un film vietnamita di science fiction ambientato nel futuro. Giuro. Si tratta di Nước (titolo inglese 2030, ovvero l'anno in cui è ambientato) "dall'acclamato regista di Buffalo boy" (?): Nghiêm-Minh (per la cronaca: io non l'ho mai sentito nominare e ancora oggi non saprei pronunciarlo). Lo so che ci tenete a vedere il trailer: siatemi vicini. TRAILER
"Metà sci-fi, metà thriller, metà storia d'amore, metà film apocalittico", recita l'intimidatoria sinossi: devo dire che in effetti è davvero così, uno strano ibrido non brutto e con alcune immagini molto d'effetto. E' una sorta di waterworld con Kevin Costner in versione vietnamita, con tempi dilatati e ovviamente senza Kevin Costner ma con una donna al centro della storia.
Un Vietnam sommerso sotto il livello del mare, suggestive scenografie a palafitta e riprese dall'alto su barche che solcano le sporche acque che nascondo storie e politiche ancora più sporche. Ma non immaginate un film di denuncia perché di fatto è una storia d'amore (anzi due) senza quasi alcun pathos, con tanti silenzi (e una musica a pianola fastidiosa che parte di tanto in tanto) e un finale che incalza all'improvviso (svegliandomi da un momento di stanca centrale). Insomma posso vantare di aver visto un film di science fiction vietnamita: lo metterò nel curriculum.

Ecco la locandina



berlinale / giorno uno (scaldiamo i motori e regaliamo i pizzoccheri)

E' la prima volta che arrivo a Berlino per il festival con il sole (le altre volte rispettivamente: neve, vento, neve). E' anche la prima volta che in un modo che devo ancora capire ottengo un passaggio gratuito da una macchina del festival fino a Postdammer Platz. Sull'auto incontro un direttore della fotografia brasiliano che ha un lungometraggio in concorso nella sezione panorama (O homem das multidoes - the man of the crowd, di marcelo gomes) e un'età indefinita tra i 23 e i 45. Mi lascia un sito internet che devo ancora vedere ma con online tutti i lavori della sua piccola società (che ha insieme ad altri 7): www.alumbramento.com.br (lo guarderò prima o poi).
Definisce tutti quei video "emerghenzia movies", perchè realizzati in condizioni un po' precarie ( a livello finanzario).

Una volta ritirato l'accredito e la borsetta (posso scegliere tra bianco con logo rosso e bianco con logo fucsia (indovinate cosa scelgo), provo svogliatamente a prenotare un qualsiasi biglietto per domani, ben sapendo che sono già le 12.00 e che probabilmente dovrò tornare in appartamento a mani vuote. E invece le sorprese non mancano stavolta e riesco a recuperare un biglietto per la proiezione di The great Budapest Hotel alle 19.00 (il che ha del miracoloso visto che nel cast del film di wes anderson figurano: ralph fiennes, owen wilson, adrian brody, williem dafoe -che ho scoperto essere bassissimo,  tilda swinton -che ho scoperto essere altissima, specialmente vicino a defoe-, jude law, edward norton, jason schwartzmann, bill murray e compagnia bella. Come dice uno con accento spagnolo guardando il manifesto del film "manca solo Gesù") e uno per Ugetsu monogatari di Kenji Mizoguchi (è del 1953 e la proiezione è alle 22.00 per cui in effetti forse questa non era una proiezione ambitissima, e anche io non sono poi sicuro che ci andrò visto che l'ho già visto...vedremo!).


Oggi alle 17.30 proverò a entrare in una proiezione che teoricamente è solo per la stampa (e non so di che film, so solo che è nella sezione forum e che ci va un mio amico che è in giuria Cicae) ma sono quasi certo che fallirò. 
Ora sono in camera aspettando che arrivi il mio solito compagno di avventura Jon Barrenechea perché c'ho un regalo da dargli (lo stesso, tutte le volte che ci vediamo, ma non stanca mai) qui in mezzo a tutto l'occorrente per il festival: scoprite l'intruso.